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Cave: la V.I.A. non trascuri rischio alluvioni e siccità

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Carrara, 4 settembre 2023

ARPAT
Dipartimento di Massa Carrara
 
Regione Toscana

  • Direzione Ambiente ed Energia

Settore VIA – VAS
Settore Tutela della Natura e del Mare
Settore Autorizzazioni Uniche Ambientali
Settore Autorizzazioni Integrate Ambientali
 

  • Direzione Urbanistica

Settore Tutela, Valorizzazione e Riqualificazione Paesaggio
 

  • Mobilità, Infrastrutture e Trasporto Pubblico Locale

Settore Logistica e Cave
 

  • Direzione Difesa Suolo e Protezione Civile

Settore Genio Civile Toscana Nord
Settore Idrologico e Geologico
Settore Manutenzione Idraulica e Opere Idrogeologiche
Settore Tutela Acqua, Territorio e Costa
 
Azienda USL Toscana Nord-Ovest
Dip. Igiene e Sanità Pubblica
Dip. Prevenzione, Settore Ingegneria Mineraria
 
Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio LU e MS
 
Parco Regionale delle Alpi Apuane
 
Autorità di Bacino Distrettuale Appennino Settentrionale
 
Comuni di Carrara, Massa, Montignoso
Sindaco
Settore Ambiente e Marmo
 

 
 
Oggetto:    Rischio alluvioni e siccità: nuovi aspetti da considerare nella VIA delle cave

 

L’intento di questo contributo è sollecitare gli enti coinvolti nelle procedure di VIA per le cave a includere nelle loro valutazioni le ricadute dell’attività estrattiva sul rischio alluvionale e sul rischio siccità, aspetti di grande importanza finora trascurati.

Sebbene gli esempi e le illustrazioni riportate si riferiscano al bacino di Carrara, le considerazioni svolte sono di validità generale, salvo alcuni aspetti che saranno espressamente segnalati nel paragrafo conclusivo (relativi all’opportunità di un diverso approccio tra le cave nei bacini estrattivi “industriali” di Carrara e Massa e quelle situate nelle aree intercluse nel Parco delle Apuane).

 

Sommario

  1. La fabbrica delle alluvioni: concetti chiave
  2. Potenza degli esperimenti mentali: salvati i ponti storici di Carrara
  3. Ambivalenza dei ravaneti: più sicurezza o più rischio?
  4. Il rischio alluvionale è in progressivo incremento
  5. La soluzione: rallentare i deflussi con i ravaneti spugna
  6. I ravaneti spugna: spunti per la realizzazione pratica
  7. I ravaneti spugna: spunti pianificatori e normativi
  8. Altre misure: utilizzare le depressioni di cava come invasi temporanei
  9. Primum non nocere: non riempire le cavità di cava esistenti!
  10. Contrastare la siccità? Ancora i ravaneti spugna!
  11. Considerazioni conclusive e paesaggistiche

 

1.     La fabbrica delle alluvioni: concetti chiave

 

È ancora largamente diffusa l’idea che le alluvioni siano fondamentalmente calamità naturali, causate da precipitazioni eccezionali. Secondo questa idea, prendendo come esempio la città di Carrara, situata al collo dell’imbuto (cioè alla chiusura del bacino montano del T. Carrione), piogge di intensità contenuta genererebbero picchi di piena modesti che restano contenuti in alveo, mentre piogge più intense genererebbero picchi ben più elevati, con superamento degli argini e alluvione del centro urbano (Fig. 1). Queste considerazioni, pur essendo corrette, rappresentano solo una “mezza verità”.
 

Fig. 1. Schema dell’effetto di precipitazioni di intensità crescente sul rischio alluvionale per la città di Carrara. Il bacino montano del Carrione (al centro) può essere concepito come un largo imbuto dalle pareti con elevata pendenza. Tutte le acque cadute nel bacino convergono verso il collo dell’imbuto, in cui è situato il centro urbano. Al crescere delle precipitazioni si passa da una piena ordinaria (A) ad una piena elevata che, superando gli argini (C), inonda la città (come è avvenuto nel 2003). Lo schema rappresenta però solo una mezza verità: l’entità della piena, infatti, non dipende solo dall’intensità delle piogge, ma anche dalle condizioni del bacino montano (pendenza, permeabilità, scabrezza, copertura vegetale, larghezza e sinuosità degli alvei ecc.).

 
L’altra mezza parte della verità è che, anche a parità dell’intensità di precipitazioni, possono verificarsi tutti e tre gli scenari della Fig. 1 (dalla piena contenuta in alveo all’alluvione) a seconda delle condizioni del bacino montano.

Possiamo convincercene in maniera semplice e intuitiva ricorrendo a “esperimenti mentali” con ragionamenti iperbolici, portando cioè all’estremo (con l’immaginazione) le condizioni del bacino montano.

Immaginiamo dunque di coprire il bacino montano con un enorme lenzuolo di plastica, rendendolo così liscio e impermeabile: con una precipitazione intensa, l’intero volume d’acqua caduto raggiungerà fulmineamente Carrara con un’onda di piena elevatissima e catastrofica (Fig. 2A).

Ora immaginiamo invece di coprire il bacino montano con un enorme materasso di spugna: il deflusso della stessa precipitazione, dovendo compiere un percorso ben più tortuoso e lungo all’interno degli interstizi della spugna, sarà molto rallentato. La piena si distribuirà dunque su un tempo ben più lungo, producendo un picco più basso, senza esondare (Fig. 2B).
 

Fig. 2. Due esperimenti mentali iperbolici. A: coprendo il bacino montano con un lenzuolo di plastica l’intero volume della precipitazione intensa raggiunge fulmineamente la città provocando un’alluvione catastrofica. B: coprendolo invece con un’enorme spugna lo scorrimento sarà molto più lento, il picco di piena arriverà più tardi, sarà ben più basso e distribuito su un tempo più lungo: non si verificherà pertanto l’esondazione.

 

L’esperimento ci insegna che, pur non potendo controllare l’intensità delle precipitazioni, potremmo ridurre grandemente il rischio alluvionale adottando accorgimenti che rallentino il deflusso delle acque nel bacino montano (vedremo più avanti come si può ottenere in pratica questo risultato).

A chi dovesse sorridere sull’attendibilità dell’esperimento mentale segnaliamo fin d’ora che esso è stato sufficiente a salvare i ponti storici di Carrara dall’abbattimento (si veda il par. 2).

Comunque, per chi diffidasse degli esperimenti mentali, ne riportiamo uno domestico (Fig. 3). Con due piccoli annaffiatoi generiamo la pioggia su un bacino montano impermeabile (l’imbuto) e su uno permeabile: l’imbuto rivestito da un materassino permeabile di sabbia (che simula i ravaneti di cava).

L’acqua (colorata per renderla meglio visibile) scende in un cilindro graduato con un piccolo foro sul fondo (che rappresenta la strozzatura idraulica del ponte della Bugia, nel centro storico di Carrara) dal quale, attraverso una cannuccia da bibite, è raccolta in una bottiglia graduata.

Il cuore dell’apparato sperimentale è il cilindro poiché, costringendo l’acqua a scorrere in verticale (anziché in orizzontale come nel torrente), visualizza meglio l’altezza dell’onda di piena e permette di misurarla ad ogni istante. Il filmato dell’esperimento ha permesso di ricostruire l’andamento delle portate nel tempo, in entrambe le condizioni.
 

Fig. 3. Il semplice apparato per l’esperimento domestico, unitamente al suo filmato, consente di misurare l’altezza idrometrica a monte della strozzatura idraulica (che simula il ponte della Bugia, nel tratto di attraversamento di Carrara) nel caso di imbuto rivestito da un materassino di sabbia asciutta (a destra) che simula il ravaneto e di imbuto non rivestito (a sinistra). Come mostra la foto, il livello idrometrico è ben più elevato nel cilindro a sinistra. Anche il volume d’acqua già transitato (nella bottiglia graduata di raccolta) è maggiore a sinistra; a destra, invece, il transito è ritardato dalla sabbia e scorre in maniera più graduale.

 
Riportando in grafico le misure, nel bacino col materassino di sabbia asciutta (indicato come “ravaneto”) l’altezza della piena si riduce del 61% (da 343 a 131 mm) e il picco viene ritardato (da 40 a 80 sec, quindi la velocità è dimezzata). Il volume totale transitato scende da 500 a 400 mL: quindi 100 mL sono stati assorbiti nel ravaneto e sottratti all’onda di piena (Fig. 4).

Ripetendo poi l’esperimento con il materassino di sabbia già saturo d’acqua (per annullare l’effetto spugna), si può concludere che la riduzione del picco operata dal ravaneto (61%) è merito in piccola parte (9%) dell’effetto spugna e in massima parte (52%) del RALLENTAMENTO del deflusso.
 

Fig. 4. Andamento dell’onda di piena (in ordinate le altezze idrometriche) nell’esperimento domestico. In presenza del “ravaneto” (il materassino di sabbia nell’imbuto) l’altezza del picco di piena si riduce del 61,8% (curva verde) rispetto all’assenza di ravaneto (curva rossa). L’aspetto di maggior interesse dell’esperimento è che gran parte della riduzione del picco di piena (52,5%) si verifica anche col ravaneto saturo d’acqua (curva blu): ciò significa che l’effetto del rallentamento del deflusso è di gran lunga superiore a quello dell’assorbimento idrico nel ravaneto (effetto spugna).

 
 

2.     Potenza degli esperimenti mentali: salvati i ponti storici di Carrara

 

La portata di piena trentennale (Q30) del T. Carrione nell’attraversamento urbano di Carrara prevista dal modello idrologico MOBIDIC nel 2016 era di 220 m3/s, mentre la capacità dell’alveo era di 90 m3/s (e di soli 60 al ponte della Bugia): per adeguare l’alveo alla Q30 non sarebbe bastato nemmeno l’abbattimento di tutti i ponti.

La massima capacità ottenibile con vari interventi in alveo (scavi, abbassamento di briglie) e sui ponti (loro abbattimento o sollevamento) era di 140 m3/s; per i restanti 80 m3/s, pertanto, il masterplan ha previsto una galleria di bypass della città (dal Can. di Torano a quello di Gragnana). Il progetto suscitò però un forte opposizione dei cittadini, a difesa del valore affettivo e storico dei ponti. Proprio in questa occasione è stato messo a frutto l’esperimento mentale di Legambiente.

Studiando il modello idraulico MOBIDIC utilizzato, infatti, ci siamo accorti che le portate di piena previste erano state calcolate considerando le aree marmifere (ravaneti compresi) con capacità idrica zero, cioè impermeabili come le aree urbanizzate: un assurdo logico (Fig. 5)!
 

Fig. 5. Il modello idrologico per calcolare le portate di piena aveva considerato (erroneamente) impermeabili le aree coperte da ravaneti, al pari di quelle urbanizzate (entrambe sono infatti campite in marrone), mentre ai nudi versanti rocciosi (di gran lunga meno permeabili dei ravaneti, com’è evidente dalle foto nei cerchi bianchi) era stata (giustamente) riconosciuta una discreta capacità idrica. La forte sottostima della permeabilità dei ravaneti aveva dunque portato a una sovrastima delle portate di piena.

 

In sostanza, avendo considerato i ravaneti impermeabili come lenzuola in plastica (anziché assorbenti come materassi spugnosi), il modello aveva fortemente sovrastimato le portate di piena! Abbiamo perciò segnalato l’errore alla Regione e chiesto il ricalcolo delle portate (si veda: Carrione: rivedere i calcoli, intervenire sui ravaneti, ripristinare gli alvei soffocati da strade 31/03/2016).

La Regione, ritenendo fondata la nostra osservazione, rifece i calcoli attribuendo ai ravaneti i parametri idrologici corretti e la Q30 a Carrara risultò 177 m3/s (ben 43 m3/s inferiore alla precedente stima di 220 m3/s). Sottraendo a questa gli 80 m3/s sottratti dalla galleria di bypass, il tratto cittadino doveva dunque far fronte a una Q30 di soli 97 m3/s: il suo adeguamento è divenuto un gioco da ragazzi (visto che era già adeguato a 90 m3/s).

Tutti i ponti del centro storico sono stati così salvati (ad eccezione del ponte della Bugia del quale, avendo una luce di soli 60 m3/s, si prevedeva l’abbattimento, mentre ora sarà sufficiente il suo innalzamento: Come ridurre il rischio alluvionale e salvare i ponti storici 12/4/2019).
 
 

3.     Ambivalenza dei ravaneti: più sicurezza o più rischio?

 

La lezione principale da trarre da quanto fin qui esposto è che è possibile ottenere una rilevante riduzione del rischio alluvionale con una gestione del bacino montano finalizzata a rallentare il deflusso delle acque meteoriche.

Per inciso, va sottolineato che gli interventi di “sistemazione” del territorio che accelerano i deflussi (strade asfaltate, canaline stradali, rettifiche e canalizzazioni degli alvei, restringimento degli alvei da parte di strade di fondovalle, superfici lisce ecc.) inducono l’incremento dell’entità delle piene.

La riduzione dei picchi di piena operata dai ravaneti dipende però da diversi fattori, tra i quali è fondamentale la composizione granulometrica. Per comprenderlo ricorriamo a un altro esperimento mentale.

Un ravaneto costituito da una miscela di scaglie di marmo (da grossolane a minute) eserciterà il massimo rallentamento del deflusso poiché costringerà le acque meteoriche a scorrere in un mezzo dotato di elevata scabrezza (il che comporta una notevole dissipazione di energia) e ne allungherà notevolmente il (tortuoso) percorso tra gli innumerevoli interstizi.

Un ravaneto costituito in buona parte da frazioni fini (terre e/o marmettola), invece, eserciterà tale effetto solo con precipitazioni modeste o, nel caso di precipitazioni intense, lo eserciterà solo nella loro fase inziale. Proseguendo la pioggia, infatti, il ravaneto si saturerà d’acqua e le particelle terrose, imbibendosi, si rigonfieranno fino a fluidificare, innescando così imponenti colate detritiche (debris flow) che seppelliranno strade e alvei sottostanti, provocando esondazioni fin dai tratti montani. In questo caso l’esperimento mentale è ampiamente confermato dall’esperienza diretta (Fig. 6).
 

Fig. 6. A: il ravaneto di Pescina, costituito da un misto di scaglie e terre. Nel 2003 (a sinistra) il ravaneto è franato seppellendo la strada comunale. Nel 2009: il ravaneto risistemato, con la sua bella via d’arroccamento asfaltata. Nel 2014 (a destra): la nuova frana, con una profonda voragine al piede, ha spazzato via sia la nuova via d’arroccamento che la strada comunale, apportando ingenti quantità di detriti al sottostante alveo del T. Porcinacchia. B: il ravaneto di Piastra, nel 2003 (franato seppellendo macchinari), nel 2010 (risistemato), nel 2014 (nuovamente franato) e nel 2017 (definitivamente abbandonato, con un bastione di blocchi al piede per evitare l’invasione della strada da parte dei detriti). Analoghe vicissitudini hanno subito diversi altri ravaneti (Crestola, Campanili, Canaloni, Bacchiotto, Canalgrande, Vara, Calocara, Ravaccione ecc.).

 
Va precisato che l’incremento del rischio alluvionale indotto dai ravaneti contenenti terre non è solo quello catastrofico innescato da precipitazioni eccezionali. Ad esso, infatti, va aggiunto il lento, ma frequente apporto di sedimenti agli alvei sottostanti (dal dilavamento e da piccoli smottamenti) che, a lungo termine, determina –sia pure impercettibilmente– il progressivo innalzamento del letto per l’intera sua lunghezza (dalle sorgenti alla foce) e la conseguente riduzione della capacità idraulica.
 
 

4.     Il rischio alluvionale è in progressivo incremento

 

È noto che il riscaldamento globale si manifesta (tra l’altro) con l’intensificazione degli eventi meteorologici estremi: alluvioni, siccità, ondate di calore ecc.

In questa sede, tuttavia, richiamandoci all’esperimento mentale della Fig. 2 (copertura del bacino montano con un lenzuolo plastico o con uno di spugna) ci basterà uno sguardo al bacino montano per capire che, rispetto al passato, il rischio alluvionale è notevolmente accentuato anche a parità di precipitazioni.

Per comprenderne le ragioni basta confrontare la situazione odierna del bacino montano con quella di un secolo fa. A quel tempo la produzione di detriti era di gran lunga superiore a quella attuale, in primo luogo perché l’escavazione era realizzata con esplosivi (“varata”: Fig. 7A) e, in secondo luogo, perché i blocchi venivano riquadrati a mano da scalpellini (“scapezzatori”: Fig. 7B). Si ottenevano quindi ingenti quantità di detriti, costituiti da massi e grosse scaglie (dalla varata) e da piccole scaglie (dalla riquadratura): la frazione di materiali fini (terre) era decisamente trascurabile.
 

Fig. 7. Due fasi tipiche dell’estrazione del marmo nella prima metà del ‘900. A: abbattimento di una parete mediante varata. B: cinque cavatori all’opera per la riquadratura (con mazzuolo e scalpello) di un blocco.

 
Ma ciò che più colpisce dal confronto sono i versanti, un secolo fa letteralmente rigonfi di detriti e privi di terre e oggi con una copertura di spessore ridotto (o assente) e in cui le terre sono evidenti e, in generale, nettamente dominanti (Fig. 8).
 

Fig. 8. Confronto tra situazioni di un secolo fa (a sinistra) e odierne (a destra). È evidente che, rispetto a oggi, i versanti erano stracolmi di detriti grossolani e privi di terre. A e B: vista del bacino di Ravaccione da Poggio Dovizia. C e D: Collestretto e Buca di Ravaccione. E e F: Fantiscritti: versanti e ferrovia (oggi camionabile). G e H: loc. Sponda, a monte di Torano.

 
L’immagine-tipo di questa imponente trasformazione dei ravaneti è mostrata efficacemente nella Fig. 9.
 

Fig. 9. Immagine-tipo della radicale trasformazione del ravaneto della cava La Facciata dai primi del ’900 (A) a oggi (B). Lo spessore si è fortemente ridotto e la composizione è passata da scaglie molto grossolane all’assoluta predominanza di terre, con riduzione della permeabilità e incremento dell’instabilità. Nota: le linee punteggiate colorate, segnalando profili rocciosi corrispondenti, hanno consentito l’identificazione della cava nonostante il tempo trascorso.

 
Questa imponente trasformazione della copertura detritica è il risultato, da una parte, delle nuove tecnologie d’escavazione (in cui gli esplosivi sono stati sostituiti dal filo elicoidale e, poi, dal filo diamantato e dalle tagliatrici a catena diamantata) e, dall’altra parte, dall’avvento, dai primi anni ’90, del business del carbonato di calcio (facilmente ottenibile dalle scaglie per semplice macinazione).

Da circa 30 anni, infatti, le scaglie (che prima venivano abbandonate sui versanti montani) sono trasportate a valle e commercializzate, mentre le terre sono abbandonate al monte (nonostante l’obbligo ad allontanarle). In sintesi, da qualche decennio i ravaneti di scaglie stanno progressivamente svuotandosi di scaglie e riempiendosi di terre, che ne diventano la componente predominante o esclusiva (Fig. 10).
 

Fig. 10. A: l’imponente ravaneto di Gioia, sviluppato su un dislivello di quasi 300 m, a prima vista può apparire costituito da piccole scaglie di marmo, ma in realtà è costituito per la quasi totalità da terre. Il colore biancastro non tragga in errore: è solo l’effetto di piogge poco intense che dilavano le terre ma non riescono a trascinare i frammenti di scaglie che, pertanto, si accumulano in superficie mascherando le terre sottostanti. Basta però un piccolo smottamento superficiale (B) o –a maggior ragione– un profondo solco d’erosione idrica (C) per rendere evidente che l’intero spessore del ravaneto è costituito fondamentalmente da terre. Si noti come non ci si sia fatto alcuno scrupolo a seppellire le cave dismesse (A).

 
A chiusura di questo paragrafo possiamo trarre una conclusione della massima importanza pratica: con la graduale ma radicale trasformazione dei ravaneti –riduzione (in estensione e spessore) e modifica della loro composizione (da scaglie a terre)– questi hanno invertito il loro ruolo, trasformandosi da fattore di sicurezza in fattore di rischio alluvionale.

Con le piogge di moderata intensità, infatti, i ravaneti odierni –assorbendo acqua e rallentandone il deflusso– riducono ancora i picchi di piena: un ruolo positivo ma poco utile poiché, in tali condizioni, il rischio d’esondazione non sussiste. Con le piogge eccezionali, invece, proprio quando l’assorbimento di acqua e il rallentamento del deflusso sarebbero essenziali per ridurre veramente il rischio, le terre contenute nei ravaneti si rigonfiano e impermeabilizzano (aumentando la frazione di acque meteoriche che scorre in superficie e accelerandone il deflusso) e, poi, fluidificano generando colate detritiche che colmano gli alvei sottostanti provocandone l’esondazione.

Se all’aumento del rischio conseguente alla mutata composizione dei ravaneti aggiungiamo l’intensificazione degli eventi meteorologici estremi conseguente al riscaldamento globale, ne emerge un quadro talmente preoccupante che sarebbe da irresponsabili trascurare nella gestione del territorio e, nello specifico, nella VIA delle attività estrattive.

Va considerato, per inciso, che nemmeno la rimozione completa degli attuali ravaneti sarebbe una soluzione visto che, rispetto al secolo scorso, si perderebbero sia l’effetto spugna che l’effetto rallentamento dei deflussi: il risultato sarebbe un’ulteriore accentuazione delle alluvioni.

La risposta efficace per uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati permettendo imponenti trasformazioni del territorio montano da parte delle imprese estrattive (in base alla loro convenienza del momento) sta nella realizzazione di ravaneti spugna, progettandoli appositamente per ridurre la frequenza e l’intensità delle alluvioni.
 
 

5.     La soluzione: rallentare i deflussi con i ravaneti spugna

 

Preso atto che la funzione protettiva dalle alluvioni è esercitata dalle scaglie presenti dei ravaneti ed è, invece, compromessa dalle terre, la soluzione logica è lampante: bisogna convertire tutti i ravaneti in “ravaneti spugna” rimuovendo le terre e mantenendo le scaglie (o, se mancanti o insufficienti, reintroducendole).

La base logica di questa proposta è sintetizzata nella mappa concettuale della Fig. 11 che mostra le catene dei meccanismi di causa-effetto coinvolti ed evidenzia (nei riquadri rossi) i danni derivanti dagli attuali ravaneti e (nei riquadri verdi) i vantaggi ottenibili ricon­vertendoli in ravaneti-spugna.
 

Fig. 11. La mappa concettuale mostra i danni (riquadri rossi) derivanti dagli attuali ravaneti e i vantaggi (riquadri verdi) ottenibili ricon­vertendoli in ravaneti-spugna. Si noti che gli effetti benefici dei ravaneti spugna non si limitano a contrastare le alluvioni, ma anche le siccità (attraverso il rimpinguamento della falda). Fonte: Sansoni, 2018. Il bacino estrattivo di Torano. Spunti per una pianificazione integrata. Legambiente Carrara.

 
Alla luce del quadro concettuale descritto è possibile ripercorrere schematicamente l’evoluzione subita dai ravaneti nell’ultimo secolo e la loro augurabile evoluzione futura in ravaneti spugna (Fig. 12).
 

Fig. 12. Illustrazione schematica delle caratteristiche fisiche e del comportamento idrologico dei vari tipi di ravaneti. L’ultima riga mostra la forma dei picchi di piena, cioè l’andamento della portata (sulle ordinate) nel tempo (sulle ascisse). Fonte: disegni di G. Sansoni, 2020.

 
 

6.     I ravaneti spugna: spunti per la realizzazione pratica

 

Per realizzare i ravaneti spugna occorre smantellare i ravaneti recenti fino a raggiungere il substrato roccioso, eliminare tutti i materiali fini (marmettola e terre) e ricostruire i ravaneti spugna con sole scaglie pulite.

A tal fine, per potenziare sia la ritenzione idrica che il rallentamento del deflusso delle acque meteoriche, è opportuno utilizzare una miscela di scaglie la cui granulometria vada da quelle grossolane (decimetriche) a quelle minute, fino a quelle del pietrisco e, eventualmente, della sabbia molto grossolana.

A livello progettuale dovrà essere prestata la massima attenzione ad assicurare la stabilità dei ravaneti spugna, anche nei confronti di precipitazioni eccezionali e di scosse sismiche.

Nella ricostruzione dei ravaneti spugna si dovrà cogliere anche l’occasione per proporre una nuova immagine dello “spirito del luogo” (genius loci), che testimoni non solo la capacità di compiere imprese titaniche, ma anche il gusto estetico e la cura del paesaggio.

Si propone pertanto la stabilizzazione dei ravaneti spugna con bastioni in scaglie (realizzati con la tecnica dei muri a secco) o in blocchi (Fig. 13). L’intento è il superamento dell’immagine attuale di un genius loci rozzo e devastatore trasmessa dal degrado che caratterizza i ravaneti recenti (che non migliora certo l’attrattiva turistica).
 

Fig. 13. A: un ravaneto antico, stabilizzato al piede con gabbioni metallici (frecce gialle); sulla destra, il deterioramento dei gabbioni ha destabilizzato il ravaneto provocando frane di detriti (frecce bianche). B e C: mirabili esempi di un secolo fa: imponenti muri a secco subverticali che sostengono grandi spessori di scaglie, realizzati a protezione di infrastrutture (strade, vie di lizza ecc.). D e E: schizzi di due possibili modalità di realizzazione di un ravaneto spugna sostenuto da bastioni in blocchi (a gradoni orizzontali o a rampe transitabili, pedonali o camionabili). F: simulazione grafica di E in vista frontale. G e H: i resti del ravaneto di Trugiano stabilizzato con muri a secco (forse corrispondenti alle foto B e C), certamente meritevoli di interventi di restauro conservativo e di essere resi accessibili alla fruizione turistica.

 
Lo spessore dei ravaneti spugna potrà essere inizialmente anche di pochi metri, ma l’intera struttura dovrà essere concepita in modo da consentire successivi incrementi di spessore (anche notevoli: alcune decine di metri), in modo da ottenere nel tempo una protezione dal rischio alluvionale progressivamente crescente (Fig. 14).
 

Fig. 14. Schema del progressivo aumento di spessore (in rosso) di un ravaneto spugna, al fine di potenziarne nel tempo la funzione di protezione del territorio dalle alluvioni.

 

Grazie ai servizi ecosistemici forniti dai ravaneti spugna (protezione dalle alluvioni e, come vedremo nel par. 10, anche dalle siccità) e al recupero paesaggistico (dal degrado rappresentato dagli attuali ravaneti), la loro realizzazione contribuirebbe anche ad attenuare l’ostilità di vasti strati di popolazione nei confronti delle cave.

Considerata la crescente presa di coscienza della popolazione del ruolo centrale svolto dalle condizioni del bacino montano nelle recenti alluvioni (sia per l’accelerazione dei deflussi indotta dalla trasformazione dei ravaneti, sia per la progressiva riduzione della capacità idraulica degli alvei dovuta ai continui apporti di detriti di cava), la realizzazione dei ravaneti spugna sarebbe anche la più efficace misura di prevenzione dell’esplosione di episodi di collera sociale nei confronti delle istituzioni (come quelli avvenuti dopo l’alluvione del novembre 2014) ritenute –giustamente o meno– responsabili per le loro azioni od omissioni.

 

7.     I ravaneti spugna: spunti pianificatori e normativi

 

Come si è visto, la realizzazione concreta dei ravaneti spugna richiede lo smantellamento dei ravaneti recenti e la loro ricostruzione, previa eliminazione dei materiali fini. Considerato che il quantitativo complessivo di materiali contenuto nei ravaneti di Carrara è stato stimato in circa 80 milioni di tonnellateColi M., Appelius V., Pini G. (2000). Studi sui ravaneti dei Bacini Marmiferi Industriali del Comune di Carrara – I: ubicazione, tipologia e consistenza. GEAM, Atti del Convegno “Le cave di pietre ornamentali”, Torino, 28-29/11/2000, 59-63., la loro rimozione e ricostruzione (anche parziale, limitata cioè ai ravaneti recenti) equivale a una “grande opera” e richiederà pertanto molti anni.

A livello pianificatorio e gestionale, l’amministrazione pubblica potrebbe dunque aggiornare il quadro normativo (PRC, PABE-Piani Attuativi di Bacino Estrattivo, Regolamento degli agri marmiferi e disciplina delle autorizzazioni estrattive) prevedendo:

  • l’impiego al monte di una data percentuale delle scaglie prodotte, da destinare alla sistemazione dei ravaneti finalizzata a ridurre il rischio idrogeologico;
  • la prescrizione di effettuare ogni anno una determinata quantità di lavori necessari a realizzare i ravaneti spugna (nel rispetto di un progetto approvato);
  • le modalità di coordinamento tra le cave che utilizzano un dato ravaneto (anche solo come supporto alla via comune di arroccamento), al fine di convertirlo in ravaneto spugna;
  • le modalità di analoga conversione dei ravaneti dismessi.

La considerazione a pieno titolo del rischio alluvionale nelle procedure di VIA rappresenterebbe dunque, non solo una doverosa assunzione di responsabilità da parte degli enti coinvolti in tali procedure, ma anche uno stimolo per gli enti locali ad aggiornare in modo sinergico gli strumenti pianificatori e normativi.

A livello operativo sembra preferibile concentrare il contributo di tutte le cave sulla realizzazione congiunta di solo 1-2 ravaneti spugna per volta, sia per ottenere più rapidamente risultati concreti che per acquisire –grazie all’esperienza– la competenza e la capacità di individuare gli accorgimenti costruttivi più efficaci.
 
 

8.     Altre misure: utilizzare le depressioni di cava come invasi temporanei

 

Nei paragrafi 1 e 2 è stata focalizzata l’attenzione sull’importanza strategica del rallentamento dei deflussi per ridurre il rischio alluvionale.

Alla luce di questo concetto appare chiaro (e sconvolgente!) quanto siano dannose le ordinarie modalità realizzative di una gran varietà di lavori pubblici, espressamente volte ad accelerare il deflusso delle acque meteoriche in ogni angolo del territorio: dalle canaline stradali agli alvei ristretti, rettificati, canalizzati (o, addirittura, completamente sepolti) per far spazio alle strade di fondovalle (Fig. 15); dalle pavimentazioni impermeabili di strade, piazze e parcheggi ai pluviali che raccolgono le acque cadute sui tetti, prontamente convogliate in fognature bianche e “sparate” nel più vicino corso d’acqua, ecc.

Per comunicare il concetto in maniera efficace, abbiamo denominato “fabbrica delle alluvioni” l’insieme di questo tipo di interventi.
 

Fig. 15. Esempi della “fabbrica delle alluvioni” in azione. A: via Colonnata, loc. Canalie. L’alveo è stato in gran parte occupato dalla sede stradale; nell’alveo attuale, confinato in una sede ristretta e arginata, le piene scorrono dunque con maggior velocità (per la minor larghezza e il maggior battente idraulico). B: il Can. di Piastra (che occupava l’intero fondovalle) è stato ristretto, rettificato e cementificato. C: a Mortarola, nell’alluvione del 2003, il Carrione ha seppellito di detriti la strada, riprendendosi così il suo alveo. D: il Can. Ry a Miseglia, uno dei tanti canali cementificati. E: la strada Ponti di Vara-Fantiscritti ha sepolto il torrente che scorreva sul fondovalle, al piede dei versanti (linee tratteggiate). F: via Canalgrande: la canaletta stradale accelera fortemente le acque (freccia lunga) rispetto a quelle che scorrono sulla carreggiata (freccia corta). G, H e I: le acque di via Fantiscritti, raccolte in una capiente canalina stradale, vengono “sparate” alla massima velocità nel T. Carrione sottostante.

 
Date le elevate pendenze, la fabbrica delle alluvioni agisce in maniera particolarmente spiccata nel bacino montano, solcato da ripide strade; da ciò la necessità di contrastare l’accelerazione dei deflussi. Un accorgimento adottabile a tal fine è recapitare le acque meteoriche in cavità di cava già presenti o da realizzare appositamente.

Considerato che l’accelerazione più spiccata si verifica nelle canaline stradali (appositamente progettate a tale scopo), in corrispondenza di alcune curve di tornante le acque delle canaline potrebbero essere sottratte allo scorrimento stradale e condottate nelle cavità di cava predisposte (Fig. 16).
 

Fig. 16. Esempi della proposta di laminazione delle piene recapitando le acque raccolte dalle canaline stradali in cavità di cava con funzione di vasche di accumulo temporaneo. A: la ripida e tortuosa via d’arroccamento alle cave del bacino di Canalgrande. B: la canalina stradale in cemento per accelerare il deflusso. C: vasca di raccolta idrica della cava Fiordichiara. D e E: cavità già esistenti (cave Carbonera e Ciresuola) che potrebbero essere convertite in vasche di laminazione temporanee; analoghe vasche potrebbero essere realizzate in numerose altre cave.

 
Queste vasche di raccolta temporanea delle acque per laminare i picchi di piena potrebbero essere dotate di una serie di tubi di scarico di modesto diametro –eventualmente posti a varie altezze– tale da permettere il loro svuotamento in circa 24 ore (per ridurre il disagio all’attività estrattiva). Ponendo lo scarico ad una quota superiore a quella del fondo potrebbero svolgere anche la funzione di accumuli idrici per sopperire alle esigenze delle cave nei periodi di scarsità.
 
 

9.     Primum non nocere: non riempire le cavità di cava esistenti!

  

Considerato il contributo alla riduzione del rischio allvionale ottenibile convertendo le cavità di cava in vasche di laminazione delle acque meteoriche, a maggior ragione appare del tutto evidente e doveroso conservare a tal fine le cavità già esistenti.

D’altronde lo stesso masterplan del Carrione, visto che l’asta fluviale da Carrara al mare non può essere adeguata alla portata duecentennale (Q200) a meno di costosissimi interventi (allargamento dell’alveo, abbattimento di ponti ed edifici, delocalizzazioni di insediamenti residenziali e artigianali), ne prevede l’adeguamento alla sola Q30, assegnando al bacino montano il compito di trattenere le portate superiori ad essa mediante la realizzazione di alcuni invasi temporanei a bocca tarata (Fig. 17).

Questo concetto chiave del masterplan conferma l’assoluta necessità di adottare ogni tipo di accorgimento in grado di trattenere le acque al monte e di rallentarne il deflusso: senza di essi, infatti, l’alluvione di Carrara sarebbe inevitabile.
 

Fig. 17. Schema del funzionamento degli sbarramenti a bocca tarata per la realizzazione di invasi temporanei finalizzati a laminare i picchi di piena. 1: la luce sul fondo dello sbarramento è talmente larga da lasciare passare indisturbate le portate ordinarie. 2 e 3: durante le piene, dalla bocca di fondo transita la Q30, mentre l’eccedenza inizia ad accumularsi nell’invaso, il cui livello inizia a salire e così continua fino al colmo della piena, dopodiché (4 e 5) torna a scendere fino al ritorno alle condizioni normali. 6: se la luce di fondo dello sbarramento è tarata per far transitare la Q30, il picco di piena in arrivo viene “decapitato” e la portata eccedente (in bianco) viene trattenuta nell’invaso. L’invaso è temporaneo: nel giro di qualche ora si riempie e si svuota. Fonte: Sansoni, 2020. Video Cave, ravaneti e rischio alluvionale. Giornata di studio “Ricadute del sistema estrattivo su territorio e comunità”. Athamanta, Friday for future, Casa Rossa Occupata, Legambiente Carrara, Magliette Bianche MS, TAM CAI Massa.

 
È pertanto veramente sconcertante constatare quanto sia diffusa la pratica di riempire le cavità di cava con inerti (prevalentemente terre, visto che le scaglie –avendo un loro mercato– sono commercializzate) (Fig. 18).
 

Fig. 18. Riempimenti di cavità di cava. A e B: Cava Bocca di Canalgrande: la linea tratteggiata indica il livello di riempimento nel 2020. C: la cava a fossa Trugiano nel 2010, vista dall’alto (nel cerchio due escavatori). D: la stessa nel 2017, già riempita. E: la stessa vista dal piano nel 2023: la freccia a doppia punta indica lo spessore della nuova ampia rampa, realizzata per riprendere l’escavazione da una quota più alta. F: la cava Venedretta-C nel 2016; oggi è sepolta da terre (vedi Fig. 10A). G e H: riempimento con terre della profonda cava Buca di Ravaccione, per creare un piazzale per riprendere l’escavazione dall’alto (le due linee in tratteggio indicano lo stesso spigolo).

 
Poiché il riempimento delle cave a fossa, sottraendo aree di laminazione, contribuisce a pieno titolo a “fabbricare” le alluvioni, dobbiamo dedurne che i tecnici coinvolti nell’espressione di pareri nella procedura di VIA non fossero consapevoli di questo tipo di rischio o che la documentazione progettuale non trattasse espressamente i riempimenti (estensione, spessore, volume, materiali interessati, finalità), considerandoli un aspetto del tutto marginale. O forse, più semplicemente, la ragione sta nel fatto che la stessa normativa, schematizzando le matrici ambientali e gli impatti da considerare, ha “dimenticato” l’impatto alluvionale (che, in effetti, pur assumendo un’importanza determinante nel caso delle cave di marmo, è solitamente trascurabile nella gran parte degli altri interventi).

Nel caso del comune di Carrara si assiste inoltre a un inspiegabile paradosso: i PABE (Piani attuativi di bacino estrattivo), oltre a dichiarare l’obiettivo di tutelare il territorio dal rischio idraulico (art, 5, comma 1, lett. d) mostrano piena consapevolezza dell’importanza di sfruttare le cavità esistenti per mitigare il rischio alluvionale trattenendo a monte volumi di acque piovane tanto che, nell’art. 30, individuano le Aree di immagazzinamento idrico (ad es. cave a fossa) e stabiliscono che il progetto di risistemazione finale di tali cave non possa prevederne il riempimento, ma debba rendere la depressione un’area stabile di immagazzinamento e rilascio controllato delle acque.

Il paradosso sta nel fatto che tale lucida consapevolezza sia stata vanificata dalla drammatica inadeguatezza delle misure concretamente adottate. Infatti:

  • la scelta di applicare l’obbligo delle aree di immagazzinamento idrico alle sole cave attive rinvia il conseguimento dei benefici idraulici al termine dell’attività estrattiva (quindi tra decenni) e vi rinuncia del tutto per le numerose cave dismesse (per le quali, peraltro, la conversione in bacini di laminazione sarebbe più semplice e comporterebbe meno disagi operativi);
  • passando dalle enunciazioni di principio alla cartografia che individua con precisione le (pochissime e minuscole) aree di immagazzinamento idrico è difficile sottrarsi all’impressione di essere stati presi in giro. Limitandosi all’area delle cave di Gioia, ad esempio, è stata pomposamente classificata “area di immagazzinamento idrico” una piccola vasca di sedimentazione di circa 300 m3 (peraltro frequentemente colma di fanghi) mentre non hanno ricevuto tale riconoscimento altre aree vicine dal volume complessivo di oltre 600.000 m3 (2.000 volte maggiore a quello dell’unica vasca individuata: Fig. 19)!

 

Fig. 19. A: il PABE, nell’area del bacino di Colonnata qui illustrata, prevede come Area di immagazzinamento idrico la sola minuscola vasca di sedimentazione (circa 300 m3) ai piedi della via d’arroccamento di Gioia (in giallo). Non prende invece in considerazione le altre cavità (in blu), oggi parzialmente o completamente riempite (fa eccezione Cancelli di Gioia, attiva), il cui volume complessivo, ammontando a oltre 600.000 m3, supera di oltre 2.000 volte quello della vasca di sedimentazione. B: la vasca di sedimentazione, recentemente svuotata, ai piedi della via d’arroccamento di Gioia. C: la stessa, colma di fanghi.

 
Lo scarso interesse mostrato dai PABE a prevenire le alluvioni, tuttavia, non esonera gli enti coinvolti nella VIA dall’esaminare l’impatto alluvionale e dal prescrivere adeguate misure compensative. Anzi, considerato che, come descritto nel par. 4, la massiccia asportazione delle scaglie dai ravaneti iniziata dagli anni ’90 ha condotto a un rilevante incremento del rischio alluvionale, le misure da prescrivere dovranno compensare anche l’incremento del rischio verificatosi da allora.

Tali considerazioni sono rafforzate dalle esplicite raccomandazioni dell’Università di Genova (relazione Seminara)Seminara, Colombini et al., 2026. Studio idraulico del Torrente Carrione con analisi dei possibili interventi. DICCA Univ. di Genova, 2016. di rimuovere le terre dai ravaneti per evitare che i numerosi interventi previsti dal masterplan del Carrione siano vanificati dalle colate detritiche e dall’eccessivo apporto di sedimenti agli alvei.

Per quanto riguarda ogni tipo di deposito di inerti (per colmare cavità, costruire rampe e vie d’arroccamento o rilevati per consentire la ripresa dell’escavazione dall’alto) riteniamo indispensabile bandire del tutto i materiali fini, ricorrendo esclusivamente a inerti grossolani o, comunque, non dilavabili dalle piogge.

A puro titolo di esempio, nel caso del riempimento della cava Trugiano (Fig. 18 C, D ed E) per ottenere un piano di lavoro più elevato per riprendere dall’alto l’escavazione della parete, l’errore di fondo è stato quello di consentire l’impiego di terre. Per 13 anni (dal 2010 al 2023) e per gli ulteriori anni che saranno necessari a completare il riempimento e l’escavazione, infatti, la cava incrementerà il rischio alluvionale per la città.

C’è inoltre da scommettere che, terminata l’escavazione, la cava (ormai ridotta a discarica) resterà tale in permanenza (potremmo citare molti esempi analoghi) e, con essa, resterà permanente l’incremento delle alluvioni.

Un riempimento della cava con sole scaglie (assieme alla predisposizione di uno scarico idrico di fondo, sfasato di 24-48 ore rispetto al massimo delle precipitazioni) avrebbe invece dato un contributo permanente alla riduzione delle alluvioni, pur consentendo la prosecuzione delle lavorazioni.

Sui funzionari che esprimono i pareri di VIA gravano dunque grandi responsabilità; ma, per converso, per essi si aprono anche grandi opportunità di contribuire a ridurre notevolmente il rischio alluvionale.
 
 

10.     Contrastare la siccità? Ancora i ravaneti spugna!

 

A prima vista può apparire strano che i ravaneti spugna, concepiti per contrastare le alluvioni, contrastino anche le siccità ma, a ben pensarci, è del tutto logico. Rallentare i deflussi superficiali, infatti, significa evitare di gettare rapidamente a mare le acque meteoriche (evitando così di incrementare i picchi di piena), trattenerle più a lungo sul territorio e favorirne l’infiltrazione e l’immagazzinamento nel suolo: ciò consente di rimpinguare le falde e di avere a disposizione maggiori riserve idriche da utilizzare nei periodi di siccità.

La realizzazione dei ravaneti spugna garantirebbe dunque anche una rilevante ricarica degli acquiferi carsici montani che, a loro volta, alimentano sia le sorgenti captate ad uso idropotabile sia quelle libere (che alimentano i corsi d’acqua). Merita descriverne in dettaglio i meccanismi.

Data l’elevata pendenza e lo spessore di suolo estremamente limitato, le acque piovane cadute nel bacino montano roccioso scorrono velocemente in superficie raggiungendo i corsi d’acqua. Una parte di esse, tuttavia, incontrando le sottili fratture del marmo, vi penetra, saturandole; laddove presenti, penetrano anche (in maggior quantità) nelle fratture beanti del reticolo carsico e rimpinguano l’acquifero, facendone innalzare il livello (superficie piezometrica) (Fig. 20). Alla fine anche queste acque riemergeranno in superficie più a valle, come sorgenti.
 

Fig. 20. A: fratture e condotti carsici esposti dal taglio in cava (1-3); 4: parete ricoperta da concrezioni calcaree (esposta alla vista grazie al crollo lungo la superficie di frattura). B: condotto carsico intercettato dal taglio. C: dettaglio di B. D: superficie interna, con concrezioni, del condotto carsico n. 3 illustrato in A. E: parete e pavimento con numerose microfratture che alimentano il deflusso di base dell’acquifero: si noti che le fratture sulla parete sono in continuità con quelle sul pavimento, interessando l’intera massa rocciosa. (A-D: cava Bettogli; E: cava Boscaccio).

 
Poiché i bacini marmiferi di Carrara sono coperti da ravaneti (dal comportamento idrologico analogo a quello di suoli di notevole estensione e spessore), questi assorbono grandi quantità di acqua che, in parte, riemerge in superficie al piede del ravaneto e, in parte penetra nelle fratture dell’acquifero, riemergendo poi dalle sorgenti. Dato che, oggi, le cave e i ravaneti sono pieni di marmettola e terre, le acque che li attraversano ne sono fortemente contaminate (Fig. 21); se, invece, fossero privi di materiali fini, ne riemergerebbero acque limpide.
 

Fig. 21. A: la sezione idrogeologica schematica illustra la circolazione carsica e le vie di penetrazione degli inquinanti. Le acque piovane penetrano nel reticolo carsico attraverso le fratture del marmo situate nei versanti (frecce blu), nelle cave (freccia nera), negli alvei (freccia arancione); quelle infiltratesi nei ravaneti (frecce rosse punteggiate) in parte penetrano nel sistema carsico (frecce rosse) e in parte riemergono al piede del ravaneto (freccia fucsia). B: scarpata al piede del ravaneto Canalgrande, ai Ponti di Vara. Al contatto col substrato roccioso (cerchio) riemergono acque fortemente torbide e lattescenti per l’elevato contenuto di marmettola (C): queste sono identiche a quelle che, infiltrandosi nelle fratture del substrato del ravaneto (frecce rosse nello schema A), raggiungono le sottostanti sorgenti delle Canalie. Naturalmente, se i ravaneti (e le cave) fossero puliti, ne riemergerebbero acque limpide.

 
Fatte queste premesse sull’alimentazione dell’acquifero carsico possiamo comprendere facilmente perché questa sia ben più abbondante e duratura in presenza di ravaneti. La spiegazione è banale: poiché le acque piovane penetrano nelle fratture carsiche quando le incontrano durante la loro (veloce) discesa lungo il versante roccioso, in assenza di ravaneto l’acquifero sarà alimentato per una durata all’incirca uguale a quella della pioggia.

In presenza di ravaneto, invece, la pioggia caduta su di esso (nonché quella proveniente dal versante sovrastante da esso intercettata) sarà assorbita dal ravaneto stesso, fino alla sua saturazione (che può richiedere parecchie ore). Quando l’acqua infiltratasi nel ravaneto raggiungerà il contatto col substrato roccioso, scorrerà su di esso (lentamente, dato l’elevato attrito) penetrando nelle fratture carsiche, e continuerà a farlo finché il ravaneto non avrà esaurito le acque accumulate: un processo che perdura da parecchi giorni a qualche settimana.

Il ravaneto, pertanto, funziona come un grande serbatoio che accumula la pioggia, facendola poi scorrere lentamente al contatto col substrato, alimentando così l’acquifero per un tempo molto più lungo. Semplificando, nel nudo versante roccioso una pioggia della durata di sei ore alimenterà l’acquifero per circa sei ore, mentre nel versante coperto da ravaneto continuerà ad alimentarlo per giorni o settimane.

In presenza di ravaneti, pertanto, l’acquifero è ben rimpinguato e le sorgenti che da esso scaturiscono assicurano più a lungo l’approvvigionamento idropotabile e la stessa portata dei corsi d’acqua, anche nei periodi asciutti.

La comprensione dei meccanismi descritti rende ancor più evidente la necessità di realizzare i ravaneti spugna privi di marmettola e terre per evitare che la maggior alimentazione dell’acquifero sia accompagnata da un suo maggior inquinamento. I fenomeni illustrati sono schematizzati nella Fig. 22.
 

Fig. 22. Andamento dei livelli della falda alimentata dall’acquifero carsico in assenza di ravaneti (colonna a sinistra) e in loro presenza (colonna a destra); per rendere meglio apprezzabili le variazioni di livello della falda, è stata colorata in turchese l’area tra il livello “di emergenza” idrica (in tratteggio rosso) e il livello attuale (linea blu continua). A1 e B1: ipotetica situazione di partenza in cui il livello della falda è identico, con o senza ravaneto. A2 e B2: situazione al termine di un periodo piovoso. In assenza di ravaneto il livello è salito ma, in presenza di ravaneto, ha raggiunto il massimo. Si noti anche il ravaneto saturo d’acqua, che prolunga l’alimentazione del reticolo carsico (frecce larghe). A3 e B3: al termine di un periodo asciutto, l’acquifero è poco sopra il livello di magra (senza ravaneto); il ravaneto ha quasi esaurito l’acqua accumulata ma il livello della falda è ancora soddisfacente. A4 e B4: dopo un periodo asciutto prolungato (es. fine estate) l’acquifero è sotto il livello di magra e si avvicina pericolosamente al livello di emergenza; col ravaneto, invece, il tetto dell’acquifero è ancora al di sopra del livello di magra. Si noti che in tutte le situazioni (tranne quelle ipotetiche di partenza A1 e B1, poste appositamente come identiche), il livello dell’acquifero è sempre più elevato in presenza di ravaneto. Nota: gli schemi mostrano l’alimentazione idrica attraverso i condotti carsici (che genera le variazioni di livello più rilevanti e rapide); non mostrano l’alimentazione attraverso il reticolo diffuso di microfratture (simboleggiata dalle tre freccette rosse tratteggiate, sulla destra) che, pur essendo quantitativamente meno importante, assicura un apporto all’acquifero (sia pur minimo) anche nei periodi asciutti prolungati. Schemi: G. Sansoni, 2021.

 
La maggior disponibilità idrica derivante dai ravaneti spugna ridurrebbe così le crisi idriche estive che impongono limitazioni ai consumi: un apporto provvidenziale nei periodi di siccità.

È appena il caso di ricordare che, affinché la “grande opera” di realizzazione dei ravaneti spugna non sia vanificata da nuovi apporti di terre e marmettola, saranno necessarie prescrizioni più stringenti, sintetizzabili nello slogan “cave pulite come uno specchio”: non basta cioè la pulizia periodica delle cave, ma le loro superfici dovranno essere mantenute costantemente pulite da ogni materiale dilavabile dalle piogge.

Anche per le rampe e le vie d’arroccamento sarà dunque indispensabile evitare l’impiego di materiali fini o, comunque, adottare accorgimenti costruttivi che assicurino la loro integrale raccolta e smaltimento: un obiettivo tecnicamente arduo ma ineludibile.
 
 

11.     Considerazioni conclusive e paesaggistiche

 

Le considerazioni fin qui svolte sono della massima importanza per i bacini marmiferi “industriali” di Carrara e di Massa, vista la massiccia presenza di cave e ravaneti che li caratterizza e che, pertanto, ne condiziona in maniera molto rilevante il comportamento idrologico.

Poiché le cave intercluse nel Parco delle Apuane interessano percentualmente una superficie decisamente inferiore rispetto a quella dei rispettivi bacini idrografici, l’effetto idrologico dei loro ravaneti viene ad assumere un’importanza più contenuta; al tempo stesso, invece, divengono più pressanti le considerazioni sull’impatto paesaggistico e sugli habitat.

Per questi motivi riteniamo che all’interno del Parco –ferma restando la necessità di portare a chiusura al più presto tutte le cave– siano comunque inammissibili i ravaneti con terre e marmettola e occorra prescrivere la rimozione integrale dei ravaneti e il ripristino ambientale finalizzato alla ricostituzione delle biocenosi originarie (non a un generico rinverdimento!).

Considerazioni paesaggistiche diverse possono essere svolte per la risistemazione delle cave situate nei bacini industriali, dove la loro pervasiva diffusione rende impraticabile la ricostituzione delle biocenosi originarie e divengono perciò prevalenti gli aspetti di paesaggio costruito, compresi quelli di archeologia industriale.

In questi bacini riteniamo opportuno il principio di mantenere pienamente visibili –come testimonianza del lavoro umano– le pareti e i pavimenti di cava, evitandone ogni riempimento (o addirittura la sepoltura) salvo, eventualmente, la creazione di un semplice manto erbaceo. Vanno invece rimossi i cumuli di detriti di ogni genere. Per i ravaneti riteniamo fondamentale la rimozione di quelli in materiali sciolti e la loro ricostruzione in ravaneti spugna con pareti di aspetto ordinato (del tipo dei muri a secco o dei bastioni in blocchi).

Merita osservare che, per potenziare l’effetto protettivo dalle alluvioni e dalle siccità, queste misure dovrebbero essere applicate anche ai ravaneti delle cave dismesse, magari ponendoli a carico delle cave attive (come misure di compensazione dell’impatto).

In conclusione, ci auguriamo che nelle procedure di VIA riguardanti le cave sia introdotta a pieno titolo anche la valutazione dei rischi di alluvioni e siccità e si studino con rigore e lungimiranza le misure da prescrivere.
 

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