Firenze, lì 29 novembre 2022
Parco Regionale delle Alpi Apuane
parcoalpiapuane@pec.it
p.c.:
Comune di Fivizzano
comune.fivizzano@postacert.toscana.it
Regione Toscana, Settore Logistica e Cave
regionetoscana@postacert.toscana.it
ARPAT
arpat.protocollo@postacert.toscana.it
Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paes. LU-MS
sabap-lu@pec.cultura.gov.it
Oggetto: Osservazioni al progetto di coltivazione della cava Crespina (Fivizzano)
Premessa
Legambiente si è sempre espressa contro la presenza di cave all’interno del Parco Regionale delle Alpi Apuane e contro l’espediente dell’artificiosa creazione delle Aree Contigue di Cava (ACC) finalizzata a sostenere che il danno ambientale da attività estrattive non colpisca il Parco, ma solo queste aree ad esso “esterne”, ancorché intercluse. Esprimiamo pertanto il nostro profondo rammarico per essere costretti a presentare osservazioni a cave che, per principio, non avrebbero mai dovuto essere autorizzate.
Siamo infatti profondamente convinti che in un Parco di così elevato valore naturalistico e paesaggistico le cave già presenti potrebbero essere tollerabili solo in via temporanea e in presenza di un cronoprogramma che ne preveda in tempi certi la progressiva dismissione secondo criteri di priorità ambientale: in tal quadro le cave presenti nel bacino Sagro-Borla dovrebbero essere tra quelle a massima priorità di dismissione e recupero paesaggistico.
Un altro motivo di disagio e di sconforto nel presentare osservazioni alla cava Crespina risiede nel fondato timore della loro inutilità, vista la convinzione (maturata da tempo e purtroppo rafforzata dalle scelte compiute dal Parco negli ultimi anni) che il Parco abbia abdicato da tempo alle sue finalità istituzionali di conservazione e valorizzazione delle risorse ambientali, sostituendole con un’arcaica concezione economicistica che l’ha reso particolarmente sensibile e recettivo alle pressioni degli imprenditori dell’escavazione.
Anche il Piano Integrato del Parco (PIP), la cui proposta tecnica presentava spunti interessanti e condivisibili, è stato stravolto con ripetute modifiche, unidirezionali e sinergicamente volte a privilegiare le attività estrattive, a tal punto da indurre il Comitato Scientifico del Parco stesso a un parere fortemente critico sul PIP, valutandolo privo di una visione e in contrasto con le ragioni fondative e le finalità istituzionali del Parco.
Neanche la recente introduzione nella Costituzione della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi (art. 9) e del principio che l’attività economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, la salute e l’ambiente (art. 41) sembra aver minimamente scalfito gli orientamenti del Parco.
Altri segnali preoccupanti vengono dalla Regione Toscana per le modifiche normative che sta apprestando, volte a prolungare l’escavazione nei “siti estrattivi in esaurimento da riqualificare”. Si tratta, infatti, di modifiche del tutto illogiche poiché equivalgono a premiare (con la proroga dell’autorizzazione) le cave che non intendono adempiere all’obbligo del ripristino ambientale già previsto in tutti i piani d’escavazione.
Con tutta evidenza si deve perciò prendere atto che gli imprenditori dell’escavazione hanno argomenti molto convincenti nei confronti degli amministratori del Parco, della Regione e dei Comuni.
Pur in questo quadro sconfortante ed estremamente preoccupante non ci sottraiamo al nostro dovere di tutelare l’ambiente e di promuovere uno sviluppo fondato sulla sua conservazione attiva: di seguito, pertanto, presentiamo le nostre osservazioni al progetto di coltivazione della cava Crespina.
Impatto paesaggistico
Basta uno sguardo all’area interessata (Fig. 1) per coglierne l’elevato valore paesaggistico, naturalistico e geomorfologico: una valle glaciale modellata dal ghiacciaio che scendeva dai tre circhi glaciali sovrastanti, un cordone morenico, una sella glaciale, la spettacolare scarpata terminale del Balzone (oltre 400 m) in corrispondenza di una discontinuità geologica, la ZPS praterie primarie e secondarie delle Apuane che interessa l’intera area (salvo l’artificioso scorporo delle ACC), le ZSC M. Borla-Rocca di Tenerano e M. Sagro che ospitano numerosi endemismi floristici e faunistici.
Di fronte all’invasività e al profondo degrado paesaggistico introdotto dalle attività estrattive –del tutto evidenti a chiunque– è doveroso chiedersi come sia stato possibile autorizzarle e tanto più come sia possibile autorizzarne oggi la prosecuzione.
Per giustificare questo enorme scempio lo studio di impatto ambientale (par. 3.8 Impatti sul paesaggio e sul patrimonio culturale) ricorre ad un insieme di argomentazioni tipiche della manipolazione comunicativa.
Si mette innanzitutto in guardia dalla valutazione soggettiva, in quanto «in stretta relazione col bagaglio culturale dell’osservatore». Si avvisa cioè l’osservatore che la sua percezione dello scempio ambientale arrecato dalle cave allo splendido paesaggio originario non è scientificamente attendibile poiché riflette solo il suo personale bagaglio culturale.
Per superare «questa componente di soggettività» si richiama la definizione di paesaggio data da Oneto «Il paesaggio costituisce un unico grande organismo vivente in cui i caratteri biologici e le cui forme percepibili sono la risultante della sovrapposizione dinamica di molteplici componenti naturali e culturali» e, «partendo da questa definizione è stata quindi utilizzata, per valutare l’impatto paesaggistico, la metodologia di NORBERG-SCHULTZ (1979), basata sul riconoscimento, per ogni ambiente, del proprio Genius loci. Per ogni ambiente esiste cioè un’impronta culturale caratteristica che definisce e ha definito negli anni un territorio, una sorta di vocazione».
In modo a dir poco temerario si lascia cioè intendere che le pregevoli intuizioni di Norberg-Schulz (e non Schultz! ndr), volte a riconoscere in ogni paesaggio lo spirito indicibile del luogo, possano in qualche modo giustificare una deliberata e arbitraria distruzione del patrimonio territoriale apuano.
In altre parole, ammantando le proprie considerazioni personali della solidità propria delle metodologie scientifiche, il consulente della società TWM utilizza in maniera tendenziosa le succitate intuizioni per arrivare a concludere che «le attività estrattive del Monte Sagro rappresentano quindi una impronta culturale propria della valle, su un substrato culturale profondamente legato alle attività agro-silvo-pastorali, montane». … «Tale assetto paesaggistico (cave e ravaneti: ndr) si è quindi consolidato entrando a far parte delle caratteristiche intrinseche (“genius loci”) della zona e conferendo i caratteristici connotati dell’ambiente apuano».
L’intero costrutto argomentativo meriterebbe di essere riportato nei testi di comunicazione come eccellente esempio di manipolazione culturale. Con esso, infatti, si realizza l’ardito tentativo di convincere che ciò che l’ingenuo osservatore interpreta come devastazione ambientale operata dalle cave in un contesto paesaggistico pregiato e meritevole di conservazione è in realtà un mirabile esempio di paesaggio culturale in cui si manifesta la concreta realizzazione della sua vocazione intrinseca. Una sorta di vocazione al martirio!
Più prosaicamente, noi riteniamo che quel genius loci non abbia saputo interpretare la vocazione intrinseca del paesaggio e che, con quelle attività estrattive in quel contesto, abbia semplicemente dato prova della sua brutalità e capacità distruttiva: un comportamento deprecabile al quale bisogna porre rimedio e non certo meritevole di rispetto e ammirazione, tanto da doverlo replicare oggi.
La strumentalità dell’approccio pseudo-scientifico adottato per la valutazione di impatto paesaggistico risulta ancor più evidente se si tiene conto che esso è congegnato in modo tale da giustificare qualunque tipo di intervento: in un’area già compromessa da cave basterà appellarsi alla vocazione intrinseca dimostrata dal genius loci, mentre in un’area integra basterà affermare che tale vocazione riguarda le intere Apuane, come dimostrato dalle plurisecolari attività estrattive che le costellano.
Per comprendere l’inconsistenza di tale approccio basta pensare che esso, portato alle sue estreme conseguenze logiche, comporterebbe addirittura il divieto del ripristino ambientale (sia al termine dell’attività estrattiva sia delle cave già dismesse) al fine di rispettare il paesaggio creato dal genius loci che, da secoli, ha voluto imprimere sul territorio –proprio come segno tangibile della sua vocazione intrinseca– l’impronta (vandalica) delle cave e dei ravaneti senza mai curarsi del loro ripristino.
Le relazioni progettuali sono disseminate di altri esempi di manipolazione comunicativa. Ci si limita qui a riportarne pochissimi. Nel paragrafo 2.9.3 del SIA (Analisi delle Unità di paesaggio presenti nell’area di studio), riferendosi all’Unità di paesaggio Aree estrattive, si afferma che «in questo contesto estrattivo non sono da segnalare particolari elementi di degrado in quanto questa attività non comporta la modificazione di crinali o di vette principali della zona».
Visto che l’attività estrattiva si esplica nella valle del Fosso Fratteta, la logica affermazione avrebbe dovuto segnalare il profondo degrado arrecato alla valle dalle attività estrattive. Si è invece preferito dire che non arreca degrado da un’altra parte (a crinali e vette): un tipico esempio di manipolazione “per distrazione” che elude cioè l’argomento parlando d’altro.
Analogamente, il progetto d’escavazione afferma che «non sono presenti aree o emergenze geomorfologiche quali circhi o forme glaciali, doline o marmitte dei giganti, all’interno del Bacino estrattivo». Più esattamente, avrebbe dovuto dire che tali elementi (in particolare la valle glaciale) sono già stati largamente distrutti dalle cave presenti (Crespina compresa) e, proprio per tale motivo, non sono più presenti nell’ambito ristretto dell’area estrattiva ma sono ancora presenti nelle sue adiacenze.
A nostro parere, inoltre, l’obbligo di conservazione dei valori morfogenetici della dorsale carbonatica prescritto dal PIT-PPR impone il recupero paesaggistico dell’intera valle glaciale attraverso la rimozione degli immensi ravaneti delle cave Crespina, Vittoria, Fratteta, Castelbaito (peraltro realizzati –abusivamente e impunemente– nel corso di decenni). Nella valle glaciale Sagro-Borla, pertanto, dovrebbero essere prescritti esclusivamente questi interventi di recupero ambientale, senza alcuna prosecuzione dell’attività estrattiva.
Anche la medio-bassa intervisibilità di progetto risultante dall’apposito studio si basa su criteri puramente geometrici senza tener conto del fatto che l’area presso Foce di Pianza e i sentieri che da lì si dipartono sono tra quelli a più elevata frequentazione delle Apuane.
In conclusione, invitiamo il Parco a non cadere negli spudorati tentativi di manipolazione comunicativa del proponente, a respingere fermamente l’impostazione metodologica della valutazione d’impatto paesaggistica e a negare la positiva verifica di compatibilità paesaggistica.
Incongruità dei quantitativi estraibili
Una singolare stranezza riguarda i quantitativi da estrarre richiesti. Il PABE del bacino Sagro-Morlungo, infatti, prevede un volume di scavo sostenibile di 200.000 mc in 10 anni; poiché nel bacino, oltre alla cava Crespina, è prevista la prossima riapertura della cava Vittoria, sembra ragionevole supporre che a ciascuna siano assegnati circa 100.000 mc in 10 anni, cioè 50.000 in 5 anni.
A dispetto di ciò, il progetto presentato prevede l’estrazione nella prima fase di 141.774 mc: ciò significa che in soli 5 anni la cava Crespina scaverebbe ben il 71% della quantità cumulativa assentibile in 10 anni alle due cave. Il restante 29% dovrebbe dunque soddisfare sia i successivi 5 anni della cava Crespina sia i 10 anni della cava Vittoria. Alla luce di queste considerazioni, la richiesta della cava Crespina di 141.774 mc nei primi 5 anni appare fortemente esagerata: un palese tentativo di accaparrarsi la gran parte dei quantitativi sostenibili stabiliti dal PABE.
Si segnalano queste incongruenze affinché il Parco e il Comune verifichino se questa è davvero la loro volontà e, in tal caso, la motivino esplicitamente.
Durata del progetto: non consente di valutare gli impatti a lungo termine
Va premesso che per compiere a ragion veduta una corretta VIA è necessario disporre delle previsioni a lungo termine (almeno approssimative) del progetto d’escavazione. Frammentare la VIA in spezzoni di 5 anni, infatti, rischia di rilevare ogni volta impatti limitati per accorgersi poi (magari quando è ormai troppo tardi) che la strategia di coltivazione adottata ha condotto a impatti insostenibili e irreversibili e che sarebbe stato meglio adottare fin dall’inizio un’altra strategia (compresa l’interruzione definitiva dell’escavazione).
Riteniamo pertanto inadeguato, ai fini della VIA, l’esame del progetto presentato, visto che riguarda solo la 1ª fase (della durata di 5 anni); nel caso specifico, questa convinzione è rafforzata dal fatto che, a differenza del passato, il progetto prevede un radicale cambiamento delle modalità di coltivazione che, da cielo aperto, passerebbero in galleria.
D’altronde sussistono ben pochi dubbi sull’intento della società TWM di proseguire l’escavazione a lungo termine, com’è desumibile da varie affermazioni contenute nella documentazione progettuale quali, ad esempio:
- «il progetto si articola in un’unica fase della durata di 5 anni, in quanto il Parco delle Alpi Apuane autorizza solo un periodo di 5 anni. Pertanto risulta superfluo presentare progetti di più lunga durata, constatando che viene sempre e comunque approvata solo la prima fase.» (Progetto di coltivazione, pag. 8);
- «Gli impatti di questa componente (sul substrato: ndr) sono legati alla asportazione della massa rocciosa, che non ha importanti influenze sulle riserve disponibili, essendo molto grandi e non esauribili nei prossimi 100 anni. Considerando che si tratta di un giacimento marmoreo con uno spessore di diverse centinaia di metri, quindi con riserve dell’ordine delle decine di milioni di metri cubi». (Relazione illustrativa, pag. 61)
- «Il progetto presentato della durata di 5 anni non esaurisce la risorsa disponibile, come ben evidenziato dalle cartografie geologiche, dalla potenzialità estrattiva e dagli investimenti necessari per la riattivazione della cava, che non possono essere ammortizzati in un periodo così breve. Pertanto gli interventi di ripristino debbono essere intesi come un possibile ripristino dell’area nel caso in cui la società decida di non proseguire l’attività alla fine dei cinque anni di progetto». (SIA, pag. 43)
Quindi, ammesso e non concesso che il progetto presentato possa essere accettabile e approvabile qualora questa prima fase rappresenti anche l’ultima, non è detto che possano essere approvabili fasi successive, visto che il loro impatto cumulativo potrebbe raggiungere soglie inaccettabili.
Si chiede pertanto di respingere il progetto poiché non consente di valutare gli impatti a lungo termine.
Per fare un solo esempio di possibile scenario, che dovrebbe essere attentamente valutato nella VIA, prendiamo i potenziali effetti sull’integrità della ZPS legati al passaggio all’escavazione in galleria.
Impatto potenziale dell’escavazione in galleria
Considerato che la scelta strategica del progetto consiste nel passaggio dall’escavazione a cielo aperto a quella in sotterraneo e che la società intende proseguirla a lungo termine (presumibilmente scavando in futuro anche al di sotto della ZPS), segnaliamo che i potenziali effetti di questa scelta non sono stati valutati.
Per illustrare graficamente uno degli effetti potenziali, prendiamo un esempio ipotetico (Fig. 2).
Le gallerie scavate nel marmo previste per la cava Crespina (per uno sviluppo complessivo di 194 m) comportano ovviamente l’intercettazione delle sei famiglie di fratture individuate nell’Elaborato A (Analisi delle caratteristiche geologiche). Si tratta per lo più di microfratture di apertura modesta e con circolazione limitata o assente che, tuttavia, contribuiscono a sostenere la portata di base delle sorgenti, sebbene nel caso specifico –data l’ubicazione dell’area presso lo spartiacque sotterraneo tra i corpi idrici sotterranei di Gorgoglio-Pizzutello e del Lucido– non sia chiaro quali siano esattamente le sorgenti interessate.
In ogni caso l’apertura della galleria e delle sue diramazioni favorirà il drenaggio della porzione di acquifero sovrastante le gallerie, mentre la porzione di acquifero ad esse sottostante sarà soggetta all’inquinamento da marmettola e da eventuali perdite di idrocarburi.
Il progetto d’escavazione prevede la sigillatura (con cemento o bentonite) delle fratture intercettate ma sembra riferirsi a quelle presenti nel pavimento –o, al più, nelle pareti– visto che tale misura è inquadrata tra quelle di prevenzione dell’inquinamento dell’acquifero.
Non sembra che il progetto abbia previsto la sigillatura delle fratture intercettate al tetto delle gallerie; sicuramente non ha valutato il potenziale impoverimento idrico della porzione di acquifero sovrastante e adiacente né il potenziale impatto sulle praterie della ZPS (che potrebbero venire a trovarsi su un substrato soggetto a un certo impoverimento idrico: Fig. 2B).
Va osservato che, quand’anche venissero sigillate tutte le fratture intercettate (comprese quelle al tetto delle gallerie), si limiterebbe solo l’impatto a breve-medio termine. Non vi sarebbe infatti alcuna garanzia che tra 30, 50 o 100 anni la sigillatura manterrebbe la propria integrità. Sussiste dunque il rischio concreto di impatti a lungo termine visto che ben difficilmente la società potrebbe garantire interventi manutentivi per decenni, anche dopo il termine dell’escavazione (e, magari, lo scioglimento legale della società TWM).
Si ritiene pertanto doveroso valutare l’impatto a lungo termine sulla ZPS legato all’escavazione in sotterraneo. Si ritiene altresì doveroso prescrivere alla società il mantenimento della sigillatura di tutte le fratture per un periodo di 100 anni dopo il termine dell’attività estrattiva (con un piano di monitoraggio e interventi, ad es. quinquennali). Per avere la garanzia dell’effettiva realizzazione di tale piano si ritiene opportuno richiedere il versamento di un’apposita fideiussione che consenta al Parco di svolgerla in maniera sostitutiva qualora la società dovesse cessare la sua esistenza legale.
Ripristino ambientale: quando?
L’esperienza delle cave apuane dimostra che il ripristino ambientale, sebbene sia previsto in tutti i piani d’escavazione, con tanto di computo metrico estimativo, nella quasi totalità dei casi non viene effettuato. La valle glaciale del Sagro-Borla non fa eccezione: uno degli elementi di maggior degrado, infatti, sono i vasti ravaneti accumulatisi nel corso di decenni.
Nel caso specifico una causa di rilievo è stata l’impraticabilità della rete stradale, inadeguata al transito pesante, che ha impedito a lungo l’allontanamento dei detriti. Tuttavia la causa principale è stata la compiacenza politico-amministrativa che, prima, ha permesso la prosecuzione dell’attività estrattiva approvando ipocritamente il piano d’escavazione (comprendente l’obbligo di allontanare i detriti nonostante la ben nota impossibilità di farlo) e, poi, ne ha tollerato la violazione.
Ma una causa di fondo sta nel fatto che il ripristino è concepito come fase finale (a escavazione terminata) per cui risulta difficile obbligare la ditta una volta che ha abbandonato il sito. Anche qui, va detto, si manifesta la compiacenza amministrativa visto che quasi mai si ricorre all’utilizzo della fideiussione per realizzare in via sostitutiva il ripristino.
Desta quindi viva preoccupazione il fatto che il progetto della cava Crespina, pur prevedendo un piano di ripristino articolato in più fasi e dotato di un cronoprogramma (Elab. L – Ripristino ambientale e riqualificazione, pag. 8) e di un computo metrico estimativo degli interventi necessari (idem, pag. 17), contenga –sparsi nei vari elaborati– elementi di vaghezza e di indeterminatezza, tanto da renderne ipotetica la concreta realizzazione.
Ad esempio: «Il progetto di ripristino potrà iniziare contemporaneamente all’inizio delle attività in quelle aree che non verranno coltivate, pertanto la rimozione e recupero del ravaneto potrà avvenire immediatamente al rilascio dell’autorizzazione, così come il ripristino della cava Crespina Alta, che non essendo oggetto di coltivazione potrà essere immediatamente oggetto di ripristino» (Elab. L, pag. 7).
Altro esempio: «Il progetto … non esaurisce la risorsa disponibile… Pertanto gli interventi di ripristino debbono essere intesi come un possibile ripristino dell’area nel caso in cui la società decida di non proseguire l’attività alla fine dei cinque anni di progetto» (SIA, pag. 43). Dal che, a logica, si deduce che, poiché l’intento chiaramente espresso dalla società è di proseguire a lungo termine l’escavazione, finché non l’avrà terminata si riserva il diritto di non attuare il ripristino.
Per prevenire il rischio che gli interventi di ripristino ambientale vengano procrastinati all’infinito crediamo sia necessario –una volta studiati attentamente gli interventi previsti– prescriverne la realizzazione immediata (preventiva o almeno contestuale all’inizio dell’attività) per tutti quelli in cui non sussistano reali impedimenti oggettivi.
Ripristino ambientale: come?
Il ripristino, sostanzialmente, comprende i seguenti interventi:
- rimozione dei detriti lasciati sul posto dalla precedente attività estrattiva, sia sui piazzali della cava Crespina sia nella cava Crespina Alta, orami dismessa; tale rimozione, giustamente, esclude quei detriti di ravaneto cartografati dal Parco come già rinaturalizzati.
- messa in sicurezza e rimozione dei macchinari obsoleti;
- realizzazione di bacini idrici per il tritone alpestre apuano;
- riporto di detriti e terre sui piazzali esterni seguito da rivegetazione erbacea e arborea e dal posizionamento di panchine per la fruizione turistica.
Per i primi due interventi non c’è ragione di dubitare della loro effettiva realizzazione, visto che sono operazioni preliminari indispensabili allo stesso inizio dell’attività estrattiva.
Ciò vale in parte anche per il terzo intervento, ma rinviamo al prossimo paragrafo le osservazioni sulle modalità proposte dalla società per la salvaguardia della popolazione di tritone alpestre apuano attualmente presente nella vasca della cava Crespina.
Sussistono invece seri dubbi sulla realizzazione del quarto intervento (rimodellamento del piazzale, rivegetazione e collocazione di elementi per la fruizione turistica). Infatti, sebbene nel cronoprogramma esso sia previsto nel quarto e quinto anno, la società ha chiaramente manifestato l’intento di proseguire a lungo termine l’escavazione: ciò significa che il ripristino ambientale sarebbe di fatto rinviato alla chiusura definitiva della cava (tra qualche decennio).
Ciononostante riteniamo importante che sia richiesta oggi alla società la presentazione di un nuovo progetto di ripristino ambientale, visto che quello attuale è finalizzato ad un recupero di natura estetico-percettiva che non tiene in alcun conto i valori ecologici e paesaggistici del contesto in cui si colloca (ZSC6, con habitat e specie di interesse prioritario, e ZPS23 praterie primarie e secondarie delle Apuane).
A dispetto di tale collocazione, infatti, il progetto presentato non è quello di un “ripristino”, ma di un semplice “rinverdimento”: come se si trattasse di una banale cava di inerti inserita in un contesto montano qualunque anziché in un ambito naturalistico di grande pregio (la valle glaciale del Sagro-Borla).
Senza scendere nei dettagli, facciamo rilevare che il ripristino dell’area della cava Crespina prevede la stesa di materiali grossolani, occludendone i vuoti con materiale terroso e fine (con ripetute bagnature e compattazioni) e ricoprendo il tutto con 50-60 cm di terra e terriccio organico, per uno spessore complessivo di 2 m (dato ricavato dal confronto delle Tav. 15 e 17). Si tratta cioè, con ogni evidenza, di un substrato completamente diverso da quello roccioso naturale (dotato di asperità e solchi di fratturazione e carsismo, ma con scarse frazioni fini), dunque inadatto a un ripristino della copertura vegetale preesistente e circostante (le praterie della ZPS).
Per la rivegetazione è previsto l’impianto di piccole piantine di specie arboree e arbustive, prelevate possibilmente nella zona di progetto o in vivai locali certificati e accettati dal Parco delle Alpi Apuane, mentre per la copertura erbacea si prevede la semina di miscugli di sementi per inerbimenti in terreni non ripidi, come indicato nel Manuale Tecnico di ingegneria naturalistica della Regione Emilia Romagna/Regione Veneto (di cui viene fornita la composizione specifica: Elab. L – Interventi di ripristino, tabella a pag. 16).
Sorprende che, nonostante le accurate descrizioni floristiche e vegetagionali presenti nel SIA e nello studio di incidenza, ci si riduca poi a utilizzare specie di “impiego generale”, ottenendo una copertura verde in massima parte estranea alla flora locale: se questa è la rivegetazione prevista, è preferibile rinunciarvi del tutto poiché comporterebbe un dannoso “inquinamento floristico”!
Riteniamo invece che si debba mirare a realizzare un substrato che, pur essendo artificiale, possa presentare condizioni edafiche non troppo dissimili da quelle originarie: ad esempio uno strato sottile (circa 20 cm, anziché 2 m) costituito da scaglie medio-piccole con una modesta frazione fine. Analogamente, per la copertura vegetale riteniamo che si debba mirare a ripristinare la composizione specifica della prateria della ZPS: è dunque necessario un progetto accurato, anche perché richiederà presumibilmente l’impiego di materiale vegetale locale (il cui prelievo e impianto o semina sono particolarmente delicati).
Va osservato per inciso che l’ipotesi qui prospettata di ridurre fortemente lo spessore di materiali di riempimento previsto per la rivegetazione finale comporta una sostanziale riduzione dei quantitativi di derivati di estrazione da accumulare in loco (previsti in 18.500 mc in banco: Elab. B – Relaz. illustrativa, pag. 3).
Ripristino ambientale: tritone alpestre apuano
Nel punto più depresso della cava Crespina si è venuta a formare una vasca con una popolazione di alcune decine di tritone alpestre apuano (Fig. 3).
Nello Studio di impatto ambientale la specie è riportata con la denominazione di Mesotriton alpestris (Laurenti, 1768) subsp. apuanus (Bonaparte, 1839) e, dal punto di vista conservazionistico, dichiarata come inserita nella Lista Rossa IUCN degli Anfibi italiani nella categoria “a minor preoccupazione” (LC). Nello Studio di incidenza è riportata con la stessa denominazione nel testo e, nella Tab. 35, con la denominazione di Triturus alpestris apuanus (ciò non stupisce, dati i numerosi sinonimi).
Nella Lista Rossa IUCN degli Anfibi italiani, comunque, tali denominazioni non compaiono e viene utilizzata la nomenclatura Ichthyosaura alpestris ssp. apuana (Bonaparte, 1839), classificata come “quasi minacciata” (NT).
In ogni caso non c’è dubbio che la sottospecie debba essere salvaguardata. Poiché il progetto d’escavazione, per avviare la coltivazione in sotterraneo, prevede lo sbasso del piazzale a una quota inferiore a quella del fondo della vasca, quest’ultima sarebbe destinata a scomparire.
Lo Studio di impatto ambientale (pag. 105), infatti, afferma che «poiché l’area all’interno del sito estrattivo attivo risulta strategica per la continuazione dell’escavazione, si propone uno spostamento degli esemplari di anfibi in un’area con le stesse caratteristiche e di dimensioni maggiori, che verrà appositamente creata al di fuori del sito estrattivo, all’interno del sito dismesso e oggetto di ripristino Crespina Alta». Per inciso, segnaliamo quanto sia deprecabile che questa informazione di importanza strategica per il progetto d’escavazione non sia riportata né nella Relazione illustrativa (Elab. B) né nel Progetto di coltivazione (Elab. C) e debba essere scovata solo a pag. 105 del SIA: si tratta di una modalità espositiva che, disperdendo in vari documenti informazioni di importanza primaria, rende faticosa e difficoltosa la piena comprensione del progetto.
In ogni caso, osservando le quote delle tavole progettuali, ci si rende conto che, per iniziare lo scavo in galleria alla quota di 1172,6 m, si prevede lo sbasso dell’intero piazzale fino a tale quota. Considerato che l’attuale vasca dei tritoni è a quota di circa 1176, ciò significa che lo sbasso di 3-4 m comporterebbe la totale scomparsa della vasca.
Per salvaguardare la popolazione di tritoni, le relazioni progettuali prevedono il suo trasferimento in una vasca della cava Crespina Alta (Fig. 4) e, nella fase del ripristino finale, la realizzazione di una nuova vasca nel piazzale della cava Crespina. Al proposito, il SIA (pag. 105) afferma che «Il progetto per la realizzazione dell’area umida e lo spostamento verranno realizzati con l’aiuto di personale specializzato in fauna anfibia e di comprovata esperienza in materia».
Riteniamo deprecabile e rivelatrice di eccessiva leggerezza e sottovalutazione dei rischi la richiesta di apertura della cava rinviando ad un futuro indeterminato la soluzione del problema del trasferimento della popolazione di tritoni. Riteniamo pertanto che l’eventuale pronuncia di compatibilità ambientale non possa prescindere dal preventivo esame di un’apposita relazione scientifica che assicuri la fattibilità di tale operazione e precisi nel dettaglio le modalità di intervento necessarie a garantirne il successo.
Per il momento, in mancanza di tale relazione, ci limitiamo a sollevare alcune perplessità sulle modalità previste negli elaborati di progetto (Elab. L – Interventi di ripristino, pag. 9-12 e Elab. M – SIA, pag. 104-106).
Una prima perplessità riguarda i tempi: anche questo intervento, infatti (come il rimodellamento e la rivegetazione finale), è previsto nel quarto e quinto anno, ma rientra tra quelli (del tutto ipotetici) che la società si riserva di attuare solo qualora dovesse decidere di abbandonare definitivamente l’escavazione. In altre parole, la società si propone di spostare a breve termine la popolazione di tritoni (dovendo ribassare il piazzale contenente l’attuale vasca), rinviando di qualche decennio la realizzazione della nuova vasca della cava Crespina in cui potrebbero essere reintrodotti.
Per l’esattezza, però, le relazioni progettuali non prevedono tale reintroduzione, ma solo che «al termine dello sfruttamento del sito estrattivo di Cava Crespina, è previsto dal progetto di ripristino la creazione di una seconda area umida» (SIA, pag. 105).
In secondo luogo, sebbene lo sbasso del piazzale (con la conseguente scomparsa della vasca dei tritoni) sia dichiarato “strategico” per la prosecuzione dell’escavazione, va osservato che l’imbocco della galleria è previsto ad ovest nel piazzale. Pertanto, essendo l’attuale vasca della cava Crespina situata all’estremità est, appare evidente che questa potrebbe essere conservata evitando lo sbasso del piazzale nella limitata area posta ad est. Si può dunque concludere che la rimozione della vasca dei tritoni non è un intervento indispensabile (si confrontino le Fig. 4A e 4B).
Confessiamo la nostra profonda irritazione per aver scoperto solo in seguito che le considerazioni fin qui fatte sulla vasca dei tritoni –basate sulla convinzione che il motivo “strategico” di sbassare l’intero piazzale fino a quota 1172,6 m risiedesse nella necessità di raggiungere la quota di apertura della galleria– discendevano da una nostra interpretazione inesatta.
L’interpretazione corretta, infatti, è ben nascosta nella Tab. 35 (Analisi degli impatti sugli Anfibi) dello Studio di incidenza (Elab. O, pag. 234), in una cella relativa al Triturus alpestris apuanus; in essa, infatti, viene rivelato che l’area della vasca dei tritoni «risulta strategica per la continuazione dell’escavazione a cielo aperto».
Con le tre parole “a cielo aperto” si ammette cioè che in realtà non sussiste nessuna motivazione strategica che giustifichi la rimozione della vasca dei tritoni, a meno di considerare strategica la semplice ingordigia di estrarre qualche blocco in più da quel piccolo rettangolo occupato dalla vasca (circa 3.000 mc, pari al 2% del volume totale richiesto dal progetto d’escavazione).
Come si vede, per giungere a comprendere che la società ritiene strategica l’eliminazione della vasca dei tritoni per il semplice motivo di poter ricavare qualche blocco in più, è stata indispensabile l’attenta lettura degli Elaborati B (Relazione illustrativa), C (Progetto di coltivazione), L (Interventi di ripristino), M (Studio di impatto ambientale) e O (Studio di incidenza), per un totale di 472 pagine, quando sarebbe bastata una semplice frase di due righe nella sede più opportuna (all’interno del progetto di coltivazione).
Ritenendo indecorose e irrispettose queste modalità estremamente frammentarie di esporre il progetto d’escavazione, crediamo che anche questa sola osservazione sia più che sufficiente per respingerlo seccamente in toto. Pertanto non procederemo ulteriormente ad avanzare osservazioni alle, pur inappropriate, modalità di realizzazione della nuova vasca nella cava Crespina Alta (in cui si propone di trasferire i tritoni presenti nella vasca Crespina) e della nuova vasca prevista nel ripristino finale della cava Crespina.
Frantoio inerti: inutile e dannoso
Il progetto di coltivazione prevede l’uso di un frantoio mobile per ridurre la dimensione dei detriti prodotti dall’escavazione e di quelli presenti nei ravaneti da rimuovere. In diverse relazioni la necessità del frantoio è giustificata con argomentazioni simili a queste: «L’asportazione del ravaneto necessita di un frantoio per poter ridurre il materiale grossolano in prodotti commerciali» (SIA, pag. 52) e «Il frantoio consentirà di ridurre il volume del materiale trasportato a valle, e a parità di peso ogni camion porterà a valle un volume superiore, aumentando la densità del prodotto e dunque aumenterà la possibilità di trovare degli acquirenti, potendo separare il materiale detritico dalle sabbie» (Elab. C – Progetto di coltivazione, pag. 9).
Come argomenteremo, è vera solo l’ultima di queste affermazioni, cioè che la frantumazione del detrito in diverse classi granulometriche accresce la sua possibilità di commercializzazione (visto che generalmente gli acquirenti sono interessati a una o poche di esse).
Si tratta tuttavia di una motivazione estranea al piano di coltivazione, ma legata unicamente alla convenienza della società che, in tal modo, sfrutterebbe l’area della cava (collocata in un contesto ambientale di grande pregio!) per introdurvi una ulteriore attività che potrebbe (e dovrebbe) essere collocata in una normale area industriale al di fuori del Parco. Con la stessa logica, infatti, la società potrebbe introdurre nel piano di coltivazione macchinari per la segagione in lastre dei blocchi estratti, o altre attività (es. laboratori artigianali, officine meccaniche ecc.).
Merita però rilevare analiticamente le inesattezze, le contraddizioni e le intenzionali ambiguità contenute nella frase «Il frantoio consentirà di ridurre il volume del materiale trasportato a valle, e a parità di peso, ogni camion porterà a valle un volume superiore, aumentando la densità del prodotto», frase che sembra suggerire che la frantumazione dei detriti ne favorirebbe l’allontanamento grazie alla riduzione del numero dei viaggi necessari.
Va innanzitutto chiarito che la frantumazione di un cumulo di detriti riduce le dimensioni dei singoli detriti, ma aumenta il volume complessivo del cumulo (poiché tra i frammenti derivanti dalla frantumazione di ogni grossa scaglia vengono a crearsi nuovi spazi vuoti). È dunque falso che «il frantoio consentirà di ridurre il volume del materiale trasportato a valle»; al contrario, infatti, il volume aumenterà e, pertanto, il trasporto a valle del materiale richiederà un maggior numero di viaggi!
La frase «a parità di peso, ogni camion porterà a valle un volume superiore» è invece vera, ma mira subdolamente a far pensare che ciò faciliterà l’allontanamento dei detriti dalla cava; per smascherarne l’intento ingannevole basta osservare che ciò significa che un cassone pieno fino al colmo trasporterà un peso inferiore.
La frase «aumentando la densità del prodotto», infine, è semplicemente contraria al vero (oltreché contraddittoria alla precedente).
In sostanza, l’utilizzo del frantoio mobile non è per nulla necessario, ma è semplicemente un espediente della società per svolgere impropriamente nell’area estrattiva una seconda attività industriale scaricandone l’impatto ambientale (data la notevole produzione di materiali fini derivanti dalla frantumazione dei detriti) nella valle glaciale del Sagro-Borla. Riteniamo pertanto che la richiesta di utilizzo del frantoio debba essere respinta.
Sulla questione dell’introduzione del frantoio in cava non possiamo però sottacere le pesanti responsabilità del Parco, poiché tale possibilità, vietata dalla delibera del Consiglio Direttivo del Parco n. 22 del 13/7/2009, è stata introdotta dalla deroga approvata dal Consiglio stesso con Delibera n. 5 del 19/2/2015.
Come ampiamente argomentato negli interventi di Legambiente Carrara del 14/7/15 (Come tutelare le Apuane? La ricetta del Parco: non bastano le cave, aggiungiamo i frantoi!), del 11/8/15 (Presupposti infondati: il Parco ritiri la delibera che introduce i frantoi nelle cave) e del 14/8/15 (Le trovate del Parco Apuane: la beffa del frantoio Arnetola-Acquabianca) la citata delibera n. 5 del Consiglio Direttivo del Parco era basata sul presupposto del tutto infondato che la frantumazione delle scaglie consentisse di ridurne il volume e, perciò, a parità di viaggi di camion, di allontanare una maggior quantità di detriti (favorendo così la rimozione dei ravaneti esistenti e riducendone l’impatto paesaggistico e idrogeologico).
Purtroppo, sebbene avessimo dimostrato come la frantumazione delle scaglie non riducesse (ma, al contrario, aumentasse!) il volume dei detriti, il Parco non ritirò la delibera, col risultato di moltiplicare i frantoi nelle cave apuane e il relativo impatto ambientale. Nel rammaricarci per questa scelta, non possiamo che rinnovare al Parco l’invito a recedere da una scelta rivelatasi controproducente.
Distinti saluti.
Fausto Ferruzza
Presidente Legambiente Toscana
Mariapaola Antonioli
Presidente Legambiente Carrara
Per saperne di più:
Sulle osservazioni ad alcune cave apuane:
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Come tutelare le Apuane? La ricetta del Parco: non bastano le cave, aggiungiamo i frantoi (14/7/2015)
Esplosivo dossier sulle cave apuane: le osservazioni di Legambiente (18/11/2014)
Le nostre osservazioni alla proposta di legge regionale sulle cave (testo integrale, 17/7/2014, 236 KB)