Scarica il parere del Consiglio di Stato che stronca il ricorso degli industriali contro il Piano Regionale Cave (240 KB)
«Nel comprensorio delle Alpi Apuane il diritto di esercizio della libertà d’impresa, segnatamente dell’attività ad alto impatto paesaggistico-ambientale di cava di materiali lapidei, è fortemente condizionata e profondamente conformata dal raffronto con gli interessi pubblici di tutela paesaggistico-ambientale […]. In questo contesto… le misure e le prescrizioni di resa minima recate dal PRC, oggetto di contestazione, rinvengono una sufficiente e adeguata base giuridica, con conseguente infondatezza delle censure sollevate, … , che devono essere respinte. Ciò peraltro non toglie – profilo, questo, che non deve essere sottovalutato – che le misure del PRC oggetto di lite perseguano anche finalità di valorizzazione dell’attività estrattiva, orientandone lo svolgimento in modo da favorire la valorizzazione dei materiali da estrazione ed essendo dunque finalizzate prioritariamente alla gestione sostenibile della risorsa». |
Così il Consiglio di Stato, nel recente parere che ha espresso al Ministero della Transizione Ecologica invitandolo a respingere il ricorso straordinario al Capo dello Stato presentato da numerosi industriali del marmo contro il Piano Regionale Cave: i supremi giudici amministrativi, dunque, ribadiscono con estrema chiarezza che la Regione e il Comune hanno il diritto, ma soprattutto il dovere, di porre limiti alla libertà d’impresa per tutelare il valore superiore del paesaggio e dell’ambiente.
Per inciso, è proprio su questa gerarchia di valori che si fonda la richiesta di Legambiente di chiudere tutte le cave intercluse nel Parco delle Apuane. Come associazione non possiamo che condividere, quindi, le tesi sostenute nel procedimento dalla Regione Toscana e dal Comune di Carrara che si sono opportunamente costituite e hanno resistito in giudizio a difesa del PRC.
Il Consiglio di Stato, dunque, richiamando la nostra Costituzione e la normativa europea, rigetta radicalmente le tesi delle imprese estrattive, le quali – invece – hanno ancora una volta cercato di sostenere che la libera iniziativa economica è un diritto che non può essere limitato da alcun’altra esigenza, neppure quella di tutelare un ecosistema, le Alpi Apuane, che, come recita la pronuncia «rappresentano un “unicum” paesaggistico, non solo a livello nazionale ma anche internazionale, in ragione e per la tutela delle quali, nel 2011, hanno ottenuto il riconoscimento come Geoparco dell’Unesco».
La spia migliore dell’arretratezza degli imprenditori ricorrenti è però il punto in cui, opponendosi alla fissazione di una resa minima (sebbene il PRC, partendo da una resa in blocchi del 30%, scenda poi al 25%, al 20% e addirittura a meno del 10%), affermano che «il pianificatore regionale, secondo criteri di proporzionalità ed adeguatezza, avrebbe dovuto introdurre dei criteri “mobili” di istruttoria da attuare da parte dei Comuni al fine di calibrare il limite minimo della resa alle esigenze ed alle caratteristiche reali delle singole cave».
In sostanza affermano che il PRC avrebbe dovuto tener conto dello status quo e consentire il mantenimento di cave con rese anche minime, purché economicamente produttive.
In effetti la versione originaria del PRC prevedeva la resa minima del 30% di blocchi per autorizzare l’escavazione, considerando che le cave con percentuali di detriti troppo alte (il 17% delle cave produce da 15 anni oltre il 90% di scarti) si configurassero come cave di inerti e, dovessero perciò essere chiuse, per l’eccessivo impatto sul territorio e sul paesaggio.
Tuttavia, come abbiamo più volte denunciato, le cose sono andate diversamente e, come emerge anche dalla stessa pronuncia del Consiglio di Stato, nel PRC attuale, comma dopo comma, la percentuale di blocchi da estrarre si è ridotta a cifre da prefisso telefonico.
Il ricorso di questi imprenditori dimostra dunque che sono privi anche del più elementare senso civico ed etico, ben lontani dalle logiche di responsabilità sociale dell’impresa, anni luce distanti dalla transizione ecologica dell’economia e della società.
Noi riteniamo invece che si dovrebbe recuperare lo spirito originario del PIT da cui il PRC discende (consentire le cave solo per usi ornamentali), ripristinando perciò il limite di almeno il 30% di resa in blocchi e prevedendo la chiusura delle cave con percentuali troppo alte di detriti.
Dalla vicenda del ricorso emerge infine un dato incontrovertibile: questa classe industriale è mediocre, volta solo al proprio particulare. Nonostante i goffi tentativi di spacciarsi per green e innovativa, pretende di usare i nostri beni comuni (le montagne) come se fossero di loro proprietà e lascia cadere ogni tanto un “soldino” in elemosina per darsi una riverniciata da “benefattore”: semplice greenwashing.
Le cose devono dunque cambiare e lo si può fare solo bandendo le gare per le concessioni in tempi rapidi. In tal modo, infatti, ponendo come prerequisito per la partecipazione alla gara la lavorazione nella filiera locale di almeno il 50% dei blocchi estratti, si potrebbe aumentare fin da subito anche il livello di occupazione. Purtroppo questa nostra richiesta è stata respinta dal Comune al momento della redazione del Regolamento degli agri marmiferi.
I bandi di gara, se ben strutturati, potrebbero anche limitare o addirittura annullare i ricorsi delle imprese contro il Comune perché l’imprenditore che partecipa a una gara ne conosce e accetta le regole e non può poi rifiutarsi di rispettarle, una volta aggiudicatasi la concessione.
Serve dunque una nuova classe imprenditoriale, più consapevole dell’attuale, che sappia contemperare le esigenze del profitto (che nel marmo è elevatissimo) con il rispetto reale delle regole di tutela ambientale, con la necessità di incrementare l’occupazione e con l’interesse della collettività cui il marmo appartiene.
L’unica ragione che può ancora giustificare la presenza delle cave è un’escavazione di quantitativi limitati a uso ornamentale che limiti davvero la produzione di detriti, eviti sia l’inquinamento di fiumi e sorgenti che il rischio alluvionale, incrementi fortemente l’occupazione e generi ricchezza per la città. Altrimenti la giustificazione manca.
Carrara, 8 gennaio 2022
Legambiente Carrara
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