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Idee per fermare la fabbrica del rischio alluvionale: manuale di autodifesa per cittadini attivi

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 Il manuale è di 100 pagine. Se vuoi leggerlo con calma, clicca qui per scaricarlo e conservarlo (40 MB)

 

 

 

Alla generazione Greta
affinché sappia cogliere
quanto la lotta per fermare
la fabbrica del rischio alluvionale,
sia parte integrante di quella
climatica per la difesa del pianeta

 

 

Foto di copertina: Marina di Carrara, piazza G. Menconi (alluvione novembre 2014)

 

 

Il presente manuale e le sue parti possono essere liberamente utilizzati e diffusi

 

 Se vuoi conservarlo, clicca per scaricare il PDF dell’intero manuale (40 MB)

 



 

 

SOMMARIO

Premessa. Perché un manuale alla portata di tutti?

1.        ALLUVIONI: SITUAZIONE E CAUSE

1.1       Rischio alluvionale: crescente a livello planetario (e ancor più per noi)

1.2       Dove nascono le piene? L’alluvione vien dal monte

1.3       Attraversamento di Carrara: quanto è critica la situazione?

1.4       Come difendere Carrara dalle alluvioni? Il masterplan (2016)

1.5       Abbattere i ponti storici? No (salvati da Legambiente)

1.6       Come si è giunti a un rischio così elevato? Crimini idraulici in città

1.7       Un tempo eravamo più prudenti? No: crimini idraulici di ieri e di oggi

1.8       Ridurre il pericolo o il rischio? L’abc del rischio alluvionale

1.9       Ridurre la pericolosità? Il cavallo di Troia che aumenta il rischio

1.10     L’inganno del cavallo di Troia in pratica: esempi locali

2.         IDROLOGIA PRATICA

3.         IDRAULICA PRATICA

4.         IL NUOVO PARADIGMA DELL’ACQUA

5.         NUOVI OBIETTIVI: LA CITTÀ SPUGNA

5.1       Misure di ritenzione idrica naturale (NWRM)

5.2       Incremento e miglioramento della forestazione

5.3       Favorire l’infiltrazione sul suolo collinare

5.4       Riqualificare i corsi d’acqua, ripristinare le piane inondabili

5.5       Mitigare l’impatto dei corsi d’acqua tombati

5.6       Creare una “città spugna” sfruttando le vecchie gore

5.7       Basta crisi idriche estive: per la città spugna, acquiferi e ravaneti spugna

5.8       Migliorare l’efficacia dei canali demaniali nelle cave (altro che sdemanializzarli!)

5.9     Far infiltrare nel suolo l’acqua dei tetti

5.10     Infiltrazione nel suolo, mediante giardini della pioggia

5.11     Altre tecniche (ma, soprattutto, altri principi)

5.12     Integrare più misure, a tutte le scale di applicazione

6.         CONCLUSIONI

 

 

 

PREMESSA. Perché un manuale alla portata di tutti?

 

Di fronte al rischio alluvionale, i cittadini si sentono impotenti perché convinti che esso dipenda sostanzialmente dall’insufficienza delle opere di difesa (argini, scavi, invasi) e che, comunque, gli enti (Comune e Regione) stiano concordemente operando per ridurlo al minimo. Il problema starebbe cioè nella limitatezza delle risorse economiche disponibili e, dunque, al di là delle possibilità d’inter­vento dei singoli cittadini.

Vi è poi la convinzione che le soluzioni risiedano principalmente in interventi fluviali e richiedano quindi competenze tecniche talmente elevate e complesse da essere al di fuori della portata –anche semplicemente di proposta– dei singoli cittadini(1)Stranamente, questa convinzione di incompetenza è spesso accompagnata da fallaci “certezze” che attribuiscono la responsabilità delle alluvioni al mancato taglio della vegetazione (impropriamente definito pulizia degli alvei) o al mancato scavo dell’alveo.

Si tratta di convinzioni errate. Infatti:

  • il rischio alluvionale non deriva dall’insufficienza delle opere di difesa, ma dall’eccesso di interventi sistematicamente volti a sottrarre spazio ai corsi d’acqua per intensificare l’urbaniz­zazione (insediamenti residenziali e artigianali, viabilità ecc.);
  • gli enti non stanno operando concordemente: mentre la Regione sta attuando gli interventi previsti dal masterplan del Carrione per ridurre il rischio, l’amministrazione comunale opera in maniera settoriale (lavori pubblici, urbanistica, cultura ecc.) e con i paraocchi, cioè senza nemmeno chiedersi se gli interventi previsti abbiano ripercussioni sul rischio alluvionale. Pertanto, seppur spesso inconsapevolmente, funziona come una “fabbrica del rischio alluvionale” che, con le sue azioni e omissioni, lo incrementa quotidianamente e vanifica gli interventi realizzati dalla Regione;
  • le soluzioni non richiedono solo interventi fluviali, ma soprattutto una strategia volta a migliorare le caratteristiche dell’intero territorio: aumentare la permeabilità dei suoli, ridurre la velocità dei deflussi, trattenere le acque meteoriche sul territorio (anziché allontanarle il più rapidamente possibile), favorire la ritenzione e l’infiltrazione idrica, sistemare i ravaneti ecc.;
  • la comprensione dei principi fondamentali di questa strategia non è assolutamente difficile, ma è alla portata di ogni cittadino.

Da queste considerazioni è nata l’idea di un manuale che metta i cittadini in grado di difendersi dalle alluvioni che la macchina comunale, lungi dal contrastare, sta “fabbricando”. A tal fine è necessario che essi acquisiscano piena comprensione dei meccanismi che generano le alluvioni, per capire sia quali pratiche occorra evitare sia la molteplicità dei livelli ai quali è possibile intervenire efficacemente, anche con interventi non convenzionali.

Scopo di questo manuale è spiegare tali meccanismi con rigore scientifico ma con un linguaggio semplice, che metta ogni cittadino in grado di confrontarsi con i tecnici senza alcuna soggezione, di elaborare e sostenere una strategia volta a ridurre il rischio alluvionale, di contestare le pratiche dannose e di pretendere dall’amministrazione l’adozione delle misure efficaci.

In poche parole, l’obiettivo è di contribuire a formare cittadini attivi e militanti, dando loro gli strumenti tecnici e culturali per renderli protagonisti attivi e capaci di riprendersi in mano il proprio futuro, senza delegarlo a chi, giorno dopo giorno, sta “coltivando” le prossime alluvioni.

Il manuale, rivolto ai singoli cittadini e in particolare alle nuove generazioni, riprende, amplia e sistematizza molte delle proposte avanzate negli anni da Legambiente all’amministrazione comunale ed è stato redatto proprio a seguito della presa d’atto della sua totale insensibilità. Ciò non toglie che gli amministratori e i tecnici comunali sinceramente interessati a servire concretamente la comunità carrarese possano trarne preziose indicazioni.

Pur restando nell’ambito di queste finalità, il manuale dedica un intero capitolo al nuovo paradigma dell’acqua per mostrare come le misure proposte per ridurre il rischio alluvionale apportino un importante contributo anche alla mitigazione del riscaldamento globale. Questo capitolo è particolarmente rivolto alla generazione Greta affinché possa estendere la sua lotta anche sul piano locale.

Pur attenendosi alla realtà carrarese, caratterizzata dalla peculiarità dell’escavazione del marmo, gran parte degli spunti forniti dal manuale è di validità generale e può pertanto essere utile in ogni realtà.

 


 

1.1      Rischio alluvionale: crescente a livello planetario (e ancor più per noi)

  

 Il rischio alluvionale è sempre esistito, ma stiamo assistendo a una sua intensificazione. Una delle conseguenze del riscaldamento globale, infatti, è proprio l’intensificazione degli eventi meteorologici estremi. In questa sede è improponibile anche solo tentare di riassumere l’argomento: basti pensare che il solo rapporto 2021 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Changes) è di quasi 4.000 pagine(2)IPCC, 2021: Summary for Policymakers. In: Climate Change 2021: The Physical Science Basis. Contribution of Working Group I to the Sixth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change. Cambridge University Press. 3949 pp. https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg1/#FullReport . Ci limiteremo quindi solo a citare pochissimi elementi essenziali.

Stiamo assistendo a un riscaldamento globale senza precedenti negli ultimi 2000 anni (superiore al periodo plurisecolare più caldo in più di 100.000 anni), che si è prodotto con una velocità incredibile (Fig. 1.1A) e che è attribuibile a cause antropiche (Fig. 1.1B).
 

Fig. 1.1. Storia dei cambiamenti della temperatura globale superficiale della terra rispetto al 1850-1900 (posta uguale a zero). A: temperatura ricostruita per gli anni 1-2000 e osservata (cioè misurata, dal 1850 al 2020). L’influenza umana ha riscaldato il clima ad una velocità mai verificatasi in precedenza negli ultimi 2000 anni. B: andamento della temperatura media annuale dal 1850 al 2020 osservato (curva in nero) e simulato sulla base dei fattori antropici e naturali (sopra) o dei soli fattori naturali (sotto). Fonte: IPCC, 2021. Summary for policymakers.

 
La causa primaria è l’incremento della concentrazione atmosferica di anidride carbonica (e di altri gas serra) rispetto al periodo preindustriale e gli scenari previsionali sono molto foschi (Fig. 1.2).
 

Fig. 1.2. La relazione quasi lineare tra le emissioni cumulative di CO2 (prendendo come base i livelli del periodo 1850-1900) e il riscaldamento globale. La linea nera mostra i dati reali osservati fino al 2019; la fascia in grigio chiaro con al centro la linea grigia mostra la stima del riscaldamento di origine antropica. Le linee e le fasce colorate dal 2020 al 2050 mostrano le proiezioni al 2050 sulla base di 5 scenari di emissione (SSP). Queste e altre previsioni sono alla base dell’appello e dei negoziati internazionali per ridurre le emissioni climalteranti. Fonte: IPCC, 2021. Summary for policymakers.

 
Tra le conseguenze del riscaldamento globale, oltre allo scioglimento dei ghiacci e all’innalzamento del livello dei mari, vi sono l’incremento della frequenza delle onde di calore, delle precipitazioni intense e delle siccità (Fig. 1.3).
 

Fig. 1.3. Risposte del sistema climatico rispetto al periodo 1850-1900: vari aspetti del clima rispondono rapidamente al cambiamento della temperatura. Nella colonna grigia la situazione attuale: la temperatura è aumentata di 1,1 °C, le siccità sono raddoppiate, le precipitazioni aumentate di 1,3 volte, la copertura nevosa si è ridotta dell’1%. Nelle tre colonne a colori le variazioni previste secondo tre scenari di aumento della temperatura (+1,5 +2 e +4 °C). Fonte: Climate Change 2021. Cambridge University Press.

 
In particolare ciò che aumenta non sono tanto le precipitazioni annue, quanto l’irregolarità della loro distribuzione, che diviene più concentrata nel tempo: si hanno cioè precipitazioni più intense seguite da periodi non piovosi più lunghi. Dovremo dunque fronteggiare sia l’aumento del rischio alluvionale, sia quello di siccità: due buoni motivi per cambiare radicalmente la nostra attuale gestione delle acque(3)L’argomento è trattato nei cap. 4 e 5.
 
Per l’analogia con il clima delle regioni tropicali, caratterizzato da temperature elevate nell’intero corso dell’anno e precipitazioni violente e abbondanti in alcuni periodi ricorrenti (la stagione dei monsoni), l’aumento di frequenza delle precipitazioni intense (anche se si verifica in altre stagioni e con una spiccata imprevedibilità) è generalmente (seppur impropriamente) indicata come tropicalizzazione del clima.

A prescindere dalla terminologia, il fenomeno sta già interessando l’intera Europa con rovinose alluvioni. La regione tra la bassa Liguria e l’alta Toscana in cui è compresa Carrara è però particolarmente interessata perché è colpita da un ulteriore aggravamento del rischio, dovuto alla ciclogenesi del golfo ligure(4)Ciclogenesi del golfo ligure
L’aria umida nord-atlantica o artica marittima, penetrata in Francia attraverso la cosiddetta Porta del Rodano, raggiunta la Corsica nord-occidentale viene deviata dalle sue montagne verso nord-est e si dirige nel golfo ligure, dove impatta con la dorsale appenninica ed è costretta a innalzarsi (raffreddandosi e condensando il vapor d’acqua). In tal modo, il contrasto tra la massa d’aria fredda e umida e la più tiepida acqua del Mar Ligure induce la formazione di una depressione che genera precipitazioni (anche molto intense) sulla Liguria di levante e sull’alta Toscana. Fonte: wikipedia: depressione ligure.

Questo fenomeno contribuisce a spiegare la particolare frequenza e violenza delle alluvioni che colpiscono l’area tra la bassa Liguria e l’alta Toscana. Ne sono esempi locali l’alluvione del Versilia (19 giugno 1996), di Carrara (23 settembre 2003) e di Aulla (25-26 ottobre 2011) (Fig. 1.4).
 

Fig. 1.4. L’elaborazione della pioggia caduta il 25 ottobre in un’ora mostra una stretta fascia nera (freccia gialla) in cui diluvia, mentre ai suoi lati piove poco o nulla. In tale percorso la precipitazione ha investito, devastandole, le Cinque Terre, Brugnato e Pontremoli (da qui, la piena del Magra ha poi inondato Aulla). Si notino, nel riquadro giallo, gli impressionanti valori di precipitazioni in 24 ore (fino a 540 mm): in queste condizioni, frane e alluvioni sono inevitabili. Fonte: Regione Liguria, 2011 (ritoccata).

 
La consapevolezza di essere collocati in un’area geografica soggetta a precipitazioni così intense e la prospettiva di una loro ulteriore intensificazione a causa del riscaldamento globale dovrebbero indurci a un forte impegno nell’adozione di misure di prevenzione e difesa. Preso atto che il Comune non se ne occupa, si rende indispensabile la mobilitazione dei cittadini: questo manuale intende contribuire a tal fine, fornendo strumenti di conoscenza e di proposta.
 

 

1.2      Dove nascono le piene? L’alluvione vien dal monte

 

In ogni bacino idrografico le portate di piena si generano al monte poiché:

  • al monte si verificano le precipitazioni più intense. L’acqua evaporata dal mare, infatti, viene trasportata dalle nuvole sotto forma di vapore; le nuvole che si dirigono verso terra, incontrando la barriera delle Alpi Apuane, sono costrette a salire e, così facendo, si raffreddano progressivamente fino a raggiungere il punto di condensazione: a questo punto il vapore genera la pioggia;
  • le acque scorrono a elevata velocità, date le elevate pendenze dei versanti montani;
  • un’ulteriore accelerazione è dovuta al fatto che al di sopra del limite della vegetazione arborea il terreno è roccioso e liscio, quindi oppone meno resistenza al deflusso delle acque.

 
Un altro motivo per cui, a parità di precipitazioni, nel bacino del Carrione si generano onde di piena più elevate che altrove è dovuto alla conformazione geometrica del bacino montano. Infatti:

  • la conformazione del bacino è ad anfiteatro, quindi con affluenti che convergono contemporaneamente al collo dell’imbuto: qui, pertanto, le loro onde di piene si sommano bruscamente generandone una più elevata. Se, invece, il bacino fosse allungato, la portata aumenterebbe progressivamente (anziché di colpo: Fig. 1.5 e 1.6);
Fig. 1.5. Influenza della geometria del bacino sulla formazione dell’onda di piena. A: in un bacino ad anfiteatro, gli affluenti convergono nell’asta principale quasi simultaneamente, dando luogo a un picco di piena improvviso che può essere catastrofico. B: in un bacino di forma allungata, invece, la portata di piena cresce gradualmente poiché gli affluenti si immettono nell’asta principale l’uno dopo l’altro; a parità di precipitazioni, il picco di piena (mostrato nel riquadro bianco) è più basso e prolungato.

 

Fig. 1.6. Schema del reticolo idrografico principale del Carrione. A Carrara si verifica un sensibile incremento di portata (indicato dal maggior spessore del Carrione) poiché le acque cadute in tutto il bacino montano (area giallina) si riuniscono e sono costrette a transitare nello stretto alveo che attraversa il centro storico. Le criticità sono illustrate nella Fig. 1.7.

 

  • al collo dell’imbuto si è insediata Carrara che si trova a elevato rischio alluvionale perché:
  • deve fronteggiare l’elevato picco di piena, ma
  • l’alveo è stato fortemente ristretto perché in parte occupato dalla via Carriona e dalle case (intere file di edifici sono state costruite addirittura in alveo);
  • i ponti sono ulteriori strozzature idrauliche (soprattutto ponte Bugia, ponte Forti e edificio sospeso Forti);
  • a Carrara la pendenza dell’alveo si riduce notevolmente, quindi la velocità rallenta e determina l’innalzamento del pelo libero dell’acqua (che può così superare la sommità degli argini).

 

 

1.3      Attraversamento di Carrara: quanto è critica la situazione?

  

Se i carraresi fossero davvero consapevoli di quanto è grave il rischio alluvionale nel centro città, non permetterebbero all’amministrazione di restare inerte e, a maggior ragione, di tollerare trasformazioni del bacino montano (da parte delle cave) che aggravano ulteriormente il rischio.

Questa diffusa inconsapevolezza e la mancanza di una visione complessiva e di una strategia coerente hanno talora condotto i cittadini ad opporsi (talora con un atteggiamento negazionista del rischio) ad alcuni interventi impattanti, accettando così (sia pure inconsapevolmente) che ad ogni piena intensa il centro città venga inondato (com’è avvenuto nel settembre 2003).

Come vedremo, Legambiente, grazie all’approccio scientifico e propositivo che caratterizza da sempre l’associazione, è entrata nel merito, criticando i limiti del masterplan in maniera rigorosa (a partire dal calcolo delle portate di piena previste) ma senza negare il rischio alluvionale, anzi, facendosene pienamente carico e proponendo soluzioni integrative o alternative o, addirittura, del tutto originali.

Le portate di piena previste dalla Regione Toscana, sulle quali sono basati gli interventi contenuti nel masterplan 2016, sono quelle fornite dal Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Firenze (studio Castelli, 2014), ottenute utilizzando il modello MOBIDIC(5)Allo sviluppo di Mobidic (MOdello Bilancio Idrologico Distribuito Continuo) hanno partecipato l’Università degli Studi di Firenze, l’Autorità di Bacino del Fiume Arno, il Centro Funzionale della Regione Toscana, il Massachusetts Institute of Technology e Eumechanos. Si tratta di un modello di trasformazione afflussi/deflussi (che stima cioè le portate di piena a partire dalle precipitazioni e dalle caratteristiche del terreno): un approccio insostituibile nei piccoli bacini, generalmente sprovvisti di stazioni idrometrografiche e per i quali, pertanto, non si hanno misurazioni in continuo delle portate in alveo. Mobidic utilizza la suddivisione del bacino in decine di migliaia di celle quadrate (es. 10×10 m) a ciascuna delle quali vengono attribuiti i valori di pendenza, permeabilità, copertura vegetale, celerità, capacità idrica, conducibilità idraulica a saturazione ecc. ecc.

Basta un’occhiata alla Fig. 1.7A per comprendere la gravità della situazione: nell’attraversa­mento urbano il Carrione è in grado di far transitare 90 m3/s, una portata di gran lunga inferiore alla portata della piena trentennale(6)La piena trentennale (o piena con tempo di ritorno di 30 anni o Q30) è quella che, statisticamente, si verifica mediamente ogni 30 anni (più esattamente, ogni anno ha una probabilità su trenta di verificarsi, cioè del 3,3%).
Va osservato che, in realtà, sebbene con i recenti cambiamenti climatici la frequenza e l’intensità delle piene si sia accentuata, questo maggior rischio non è adeguatamente valutato dalla Q30 poiché il suo calcolo è influenzato dalla lunga serie di dati idrometrografici del secolo scorso (con alluvioni meno frequenti). Questa sottovalutazione del rischio è particolarmente elevata per l’area apuana poiché questa è esposta al fenomeno della ciclogenesi del Golfo Ligure che genera precipitazioni di estrema intensità (si pensi all’alluvione del Versilia del 1996 e a quella del Magra nel 2011).
(Q30) stimata in 220 m3/s e, ancor di più, a quella della portata duecentennale (Q200) stimata in 320 m3/s. Ad aggravare ulteriormente il rischio c’è la strozzatura idraulica del ponte della Bugia che permette il transito di soli 60 m3/s.

È dunque evidente che, in assenza di interventi, il centro città subirà certamente ripetute alluvioni. Qualunque soluzione non può prescindere da questa presa d’atto.
 

Fig. 1.7. Schema della situazione idraulica del Carrione nel tratto di attraversamento del centro città e della strategia per far fronte al transito delle piene adottata dal masterplan del Carrione (2016), basato sulle portate fornite dallo studio Castelli (2014). A: portate della piena trentennale (Q30) previste dal masterplan 2016 in ogni tratto. A fronte di una Q30 di 220 m3/s (e di una Q200 di addirittura 320 m3/s), la capacità dell’alveo è di soli 90 m3/s. La situazione è dunque drammatica: per il transito della Q30, infatti, non sarebbe sufficiente nemmeno l’abbattimento di tutti i ponti (per questo motivo il masterplan prevede la realizzazione della galleria scolmatrice). B: interventi previsti dal masterplan 2016 per mitigare il rischio alluvionale. Considerato che la massima capacità idraulica ottenibile nell’attraversamento urbano (sollevando o abbattendo alcuni ponti) è di 140 m3/s, si prevede di scolmare gli 80 m3/s restanti (rispetto alla Q30 di 220 m3/s) mediante una galleria dal Can. di Torano al Can. di Gragnana (rappresentata dalla freccia turchese). Nota. Il punto più critico dell’attraversamento urbano è il ponte della Bugia, dal quale passano solo 60 m3/s. Di questo ponte era dunque previsto l’abbattimento (e l’eventuale ricostruzione).

 
 

1.4      Come difendere Carrara dalle alluvioni? Il masterplan (2016)

 

Il masterplan, preso atto della gravità della situazione, ha verificato preliminarmente in quale misura fosse possibile aumentare la capacità idraulica del Carrione nell’attraversamento del centro storico. È così giunto alla conclusione che la massima capacità ottenibile è di 140 m3/s, anche se a costo di interventi dolorosi: rimozione o sollevamento del ponte Forti, rimozione del­l’edificio Forti sospeso sull’alveo (o sollevamento del suo solaio), rimozione o completo rifacimento del ponte della Bugia (il suo sollevamento è stato escluso poiché le rampe di accesso sarebbero risultate troppo ripide e avrebbero interferito con gli ingressi delle abitazioni adiacenti).

Anche con questi interventi, dunque, si arriva a una capacità di 140 m3/s, ben 80 m3/s al di sotto di quella necessaria al transito della Q30 (220 m3/s). Da qui la scelta progettuale del masterplan: sottrarre 80 m3/s al tratto urbano costruendo un’apposita galleria che li prelevi dal Carrione di Torano e li recapiti al Can. di Gragnana, bypassando così il centro storico (Fig. 1.7B).

Data la drammaticità della situazione, fin dall’inizio è stata riconosciuta l’impossibilità di ‘mettere in sicurezza(7)Il termine ‘messa in sicurezza’, pur improprio (perché non è esclusa la possibilità di un’alluvione, ad es. per la rottura di un argine o l’occlusione di un ponte), è largamente usato, in riferimento al dimensionamento delle opere adeguato a proteggere da piene di una data intensità. Per la normativa, i piani delle Autorità di bacino si propongono la ‘messa in sicurezza’ (più propriamente la ‘mitigazione del rischio’) rispetto alla Q200. il centro storico rispetto alla Q200 poiché ciò avrebbe richiesto l’elimi­na­zione della via Carriona e/o di file di edifici. Come vedremo, si è dunque deciso di trattenere al monte le portate eccedenti la Q30 (fino alla Q200); a tal fine è stata prevista la costruzione di invasi temporanei al monte capaci di lasciar transitare la Q30.

Risulta così ancor più chiaro il ruolo strategico del bacino montano, poiché questo deve farsi carico anche dell’inadeguatezza dell’alveo del Carrione nell’attraversamento del centro storico. Da ciò deriva l’assoluta necessità e urgenza di una radicale sistemazione del bacino montano (che lo renda capace di trattenere le portate duecentennali lasciando transitare solo le trentennali): fino ad allora, infatti, Carrara resterà soggetta ad un elevato rischio alluvionale.

L’indifferenza alla sistemazione del bacino montano da parte dell’amministra­zione (che si comporta come se il rischio alluvionale non fosse un problema di sua competenza e interesse) rappresenta una grave minaccia per tutta la comunità carrarese (si vedano i paragrafi 2.9 e 2.10).
 
 

1.5      Abbattere i ponti storici? No (salvati da Legambiente)

 

Legambiente, lungi dal contestare o minimizzare la gravità della situazione, ha condiviso l’imposta­zione strategica dello studio idraulico dell’Università di Genova (prof. Seminara, 2016) da cui è scaturito il programma di interventi (masterplan). Tuttavia, rilevato che le portate di piena previste nei bacini marmiferi erano sensibilmente maggiori di quelle dello studio idrologico precedente (Viti, 2004), ha cercato di individuarne le ragioni.

Studiando in maniera attenta lo studio idrologico (Castelli, 2014) dal quale erano state tratte le portate di piena previste, è giunta alla conclusione che il modello MOBIDIC utilizzato era stato alimentato con dati provenienti da diverse fonti, una delle quali (la Carta delle proprietà idrauliche dei suoli, aggiornamento 2014 redatta per l’intera Toscana da SoilData & Unifi-DICeA) riportava valori inattendibili (limitatamente alle aree coperte da ravaneti).

Pur trattandosi di una carta di ottima qualità a livello regionale, probabilmente non rientrava nelle sue finalità l’approfondimento del comportamento idrologico dei ravaneti, un tipo di “terreno” così anomalo e localizzato che è stato assimilato a un terreno impermeabile, al pari delle aree completamente urbanizzate (Fig. 1.8).
 

Fig. 1.8. Esempio di due (dei numerosi) parametri del comportamento idrologico del terreno. In entrambi i casi, i ravaneti sono cartografati con lo stesso colore delle aree urbanizzate: sono stati cioè considerati impermeabili (ancor più della nuda roccia di marmo). A: Capacità idrica totale del suolo (prodotto tra spessore e porosità efficace). B: Conducibilità idraulica a saturazione (Ksat) dello strato superficiale (30 cm). Fonte: Castelli e Lardani, 2014. Implementazione modello idrologico distribuito per la Toscana – Bacino Toscana Nord.

 
In sostanza, a dispetto delle notevolissime capacità di assorbimento idrico (derivanti dalla loro elevata porosità e dai notevoli spessori), i ravaneti sono stati considerati terreni impermeabili, al pari delle aree urbanizzate. Di conseguenza ad essi sono stati attribuiti valori errati per diversi parametri della massima importanza per la stima delle portate di piena [ad esempio: capacità idrica totale, conducibilità idraulica a saturazione, celerità del deflusso superficiale di versante, celerità del deflusso sub-superficiale (ipodermico) di versante, percolazione dal suolo verso le falde, acqua gravimetrica, acqua capillare, densità apparente del suolo, profondità utile del suolo, profondità dello strato roccioso].

Abbiamo dunque segnalato alla Regione che il modello MOBIDIC, pur pregevole in sé, è stato alimentato con dati errati (“trascinati” in esso dalla carta delle proprietà idrauliche dei suoli) ed ha dunque fornito portate errate (sovrastimate). Abbiamo pertanto richiesto la correzione di tali errori e il ricalcolo delle portate di piena previste per i vari tempi di ritorno.

La serietà della nostra segnalazione e delle relative argomentazioni tecniche è testimoniata dal fatto che la regione ha fatto svolgere la verifica (studio Castelli, 2018) e ne sono risultate portate di piena sensibilmente inferiori (Fig. 1.9).
 

Fig. 1.9. Schema della situazione idraulica del Carrione e degli interventi nel tratto di attraversamento del centro città, sulla base delle portate di piena ricalcolate (studio Castelli, 2018) a seguito della segnalazione di Legambiente Carrara. La freccia turchese indica la futura galleria che deriverà 80 m3/s dal ramo di Torano (poco a monte di Caina) al Can. di Gragnana (a valle del ponte d’accesso alla villa Fabbricotti). Si confrontino le portate con quelle della Fig. 1.7B.
La Q30 prevista nel centro urbano è scesa da 140 a 97 m3/s, di cui 90 provenienti dal Can. di Colonnata e 7 dal Can. di Torano (poiché 80 saranno derivati dalla galleria). È dunque possibile salvare i ponti storici, visto che l’adeguamento della capacità idraulica da 90 a 97 m3/s può essere ottenuto con modesti interventi in alveo.
Nota. In questa situazione meno drammatica diviene praticabile anche il sollevamento del ponte della Bugia per il quale, altrimenti, sarebbe stato inevitabile l’abbattimento (e l’eventuale ricostruzione ex novo).

 
Dal punto di vista concreto, il risultato del ricalcolo delle portate richiesto da Legambiente è stato dunque una consistente riduzione delle portate di piena previste grazie alla quale, mantenendo lo schema d’intervento del masterplan, diviene sufficiente adeguare la capacità idraulica del Carrione dagli attuali 90 m3/s ai 97 m3/s previsti: praticamente un gioco da ragazzi, possibile con modesti interventi in alveo. L’intervento di Legambiente ha dunque consentito il salvataggio dei ponti storici (e del loro valore storico-architettonico, nonché affettivo) e un non indifferente risparmio economico.

Dal punto di vista scientifico, il principale risultato del ricalcolo delle portate è stato la conferma della grande importanza delle caratteristiche del terreno nel determinare la formazione delle onde di piena e del rilevante ruolo idrologico dei ravaneti nel ridurre i picchi di piena. Ne riparleremo più avanti (nei paragrafi 2.7 e 2.8) dove spiegheremo in quale modo e a quali condizioni i ravaneti riducano il rischio alluvionale.
 
 

1.6      Come si è giunti a un rischio così elevato? Crimini idraulici in città

 

L’elevato rischio alluvionale nell’attraversamento urbano non è attribuibile a cause naturali, ma è il frutto plurisecolare di scelte urbanistiche scellerate costantemente finalizzate a sottrarre spazio al Carrione per “guadagnare terreno” e soddisfare interessi privati e appetiti edificatori.

Dai tempi del Principato di Carrara a oggi, infatti, i governanti hanno costruito strade e permesso la costruzione di edifici a spese dell’alveo del Carrione, restringendolo e rendendolo così sempre più pericoloso.

Le amministrazioni comunali (e le precedenti forme di governo) hanno cioè agito come una perfetta “fabbrica del rischio alluvionale” il cui prodotto è stato il progressivo aggravamento del rischio. Come vedremo, da questo punto di vista l’attuale amministrazione non si differenzia dalle precedenti.

Basta una passeggiata in città, lungo l’argine del Carrione, per rendersi conto dei crimini idraulici più evidenti. Partiamo dal ponte alle Lacrime. All’epoca della sua costruzione (XVII sec.?), il bel ponte, a due arcate e situato nel tratto più largo del Carrione, era sicuramente in grado di sopportare una portata ben superiore a quella attuale.

Basta guardarlo per capirlo: visto da valle si nota che l’arcata secondaria è stata occlusa e che i due edifici a monte sporgono in alveo, restringendolo fortemente (Fig. 1.10A). Visto da monte si nota che l’alveo è ristretto da un giardino pensile in alveo –frutto del riempimento del canale di scarico dell’ex mulino– e che anche la luce residua dell’arcata secondaria è stata murata (Fig. 1.10B).
 

Fig. 1.10. A: il ponte alle Lacrime visto da valle, con le due arcate. Il numero 1 contrassegna l’edificio dell’ex Mulino Forti (lato via Carriona); il n. 2 l’edificio a monte del ponte in sinistra idrografica; entrambi abbondantemente sporgenti in alveo (frecce a doppia punta); col numero 3 è indicato l’edificio Forti sospeso sull’alveo (cfr. Fig. 1.12). B: lo stesso visto da monte: parte dell’arcata secondaria è stata occlusa in un primo tempo dall’edificio 2; in seguito, anche la parte restante è stata murata. Confrontando con la foto A è evidente il forte restringimento subito dall’alveo a monte del ponte.

 
In tal modo, secolo dopo secolo, l’assecondamento di appetiti edificatori ha scaricato sull’intera comunità un pesante fardello: l’aggravamento del rischio alluvionale. L’ultimo atto della sequenza di questi crimini idraulici –la muratura dell’arcata secondaria e il riempimento con terra del canale di restituzione del mulino per realizzare un giardino privato– è successivo agli anni ’60: fino ad allora, infatti, in condizioni di piena la parte ancora libera dell’arcata secondaria consentiva il deflusso delle piene (Fig. 1.11).
 

Fig. 1.11. Il Ponte alle Lacrime negli anni ’60. Circa 1/3 della seconda arcata era ancora libero (A) e percorso dalle acque in condizioni di piena (B). La direzione della corrente è indicata dalle frecce azzurre. Fonte: foto tratte dalla relazione Seminara, 2016 (fornite dall’ing. Daddi).

 
Il crimine principale è rappresentato dall’ex Mulino Forti e dall’adiacente ponte Forti (subito a monte del Ponte alle Lacrime) che, sinergicamente, hanno ristretto al’alveo del Carrione in larghezza e perfino in altezza (Fig. 1.12).
 

Fig. 1.12. Ponte Forti. Oltre al restringimento del Carrione derivante dall’intrusione in alveo del Mulino Forti (1) e dell’edificio lato Duomo (2), l’alveo è stato ulteriormente ingombrato dai muri al piede (M1 e M2), dall’edificio sospeso (3) e dall’impalcato del Ponte Forti (4), particolarmente basso.

 
L’entità dei crimini commessi in questo tratto diviene però ancor più evidente guardandoli dall’alto. Si coglie a colpo d’occhio, infatti, che sulla sponda opposta alla via Carriona è stata costruita in pieno alveo un’intera fila di edifici (Fig. 1.13).
 

Fig. 1.13. Crimini idraulici commessi presso il ponte Forti. Come risulta evidente dalla linea punteggiata che delimita l’alveo del Carrione, sono stati costruiti in pieno alveo non solo il Mulino Forti, ma anche un’intera fila di edifici. 1: Mulino Forti sulla via Carriona, sporgente in alveo; 2: edificio a monte del ponte alle Lacrime (di cui occlude l’arcata secondaria); 3: edificio Forti sospeso sull’alveo; 4: fila di edifici costruita interamente in pieno alveo.

 
Ma il punto più critico dell’intero tratto urbano è il ponte della Bugia che consente il transito di soli 60 m3/s, a fronte della portata di progetto prevista dal masterplan 2016 (140 m3/s), di quella del masterplan 2018 (97 m3/s) e, non va dimenticato, della Q30 (che, seppur ridimensionata a seguito dei nuovi calcoli, è 177 m3/s).

In corrispondenza del ponte è stato commesso l’ultimo crimine idraulico, anche in senso temporale: tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso, infatti, è stato costruito (a monte del ponte e a esso adiacente) un edificio sporgente in alveo che ha reso ancor più grave l’insufficienza della luce del ponte (Fig. 1.14).
 

Fig. 1.14. Ponte della Bugia. A: come indicato dalle frecce a doppia punta, l’edificio costruito a monte del ponte sporge in alveo per circa 2 m, rendendo ancora più critica la strozzatura idraulica rappresentata dal ponte stesso. B: dettaglio.

 
La soluzione più corretta sarebbe dunque l’abbattimento dell’edificio, privo di valore storico. Purtroppo, tenuto conto delle complicazioni, dei tempi e dei costi che ciò comporterebbe, diventa comprensibile la scelta della Regione di orientarsi su soluzioni di ripiego.

Il Masterplan 2016, basandosi sulla necessità di aumentare la portata veicolabile di ben 80 m3/s (da 60 a 140 m3/s), prevedeva la rimozione del ponte o il suo rifacimento, escludendo espressamente il suo sollevamento poiché avrebbe impedito l’accesso alle abitazioni adiacenti e reso eccessiva la pendenza della strada sul ponte stesso.

Tenuto conto della revisione della Q30 (da 240 a 177 m3/s) e degli 80 m3/s che saranno sottratti dalla futura galleria, la portata di progetto da soddisfare nell’attraversamento urbano scende a 97 m3/s. Ciò rende possibile evitare il rifacimento completo del ponte, essendo divenuto sufficiente il suo sollevamento (ben più contenuto di quello che avrebbe richiesto l’adeguamento a 140 m3/s). Ciò non toglie, tuttavia, la necessità di riconoscere che la scelta di consentire la costruzione dell’edificio sporgente in alveo rappresenti un vero e proprio crimine idraulico.
 
 

1.7      Un tempo eravamo più prudenti? No: crimini idraulici di ieri e di oggi

 

È opinione diffusa che nei bei tempi andati l’ubicazione degli insediamenti urbani e dei loro singoli edifici fosse il frutto di scrupolose valutazioni volte a garantirne la sicurezza (approvvigionamento idrico e alimentare, difesa militare e da luoghi malsani, sicurezza da frane e alluvioni ecc.), al contrario di quanto avverrebbe oggi sotto la spinta della speculazione edilizia e di altri interessi privati forti.

Senz’altro vi è del vero, ma si tratta di una visione idilliaca in buona parte smentita dalla realtà, soprattutto per quanto riguarda il rischio alluvionale. I crimini idraulici (o gli errori idraulici per chi intendesse concedere l’attenuante dell’ignoranza), infatti, hanno ovunque una storia lunga millenni. Ci limiteremo qui a un excursus di pochi secoli e a pochi esempi relativi al torrente Carrione.

Partiamo dall’ultimo crimine citato nel paragrafo precedente: l’edificio sporgente in alveo a monte del ponte della Bugia, costruito negli anni 1960-1980. Se confrontiamo la situazione attuale con il Catasto Estense del 1823, scopriamo non solo che questo crimine non è isolato, ma che rappresenta solo la punta dell’iceberg.

Immediatamente a valle del ponte, infatti, è stata costruita in pieno alveo addirittura un’intera fila di edifici, mentre a monte del ponte l’alveo è stato ristretto per allargare via Vezzala. In questo modo l’alveo a monte del ponte è stato ristretto a circa 8 m (dai 10 m precedenti), mentre a valle è passato da 16 m agli attuali 8 m; la stessa lunghezza del ponte si è dimezzata, da 16 a 8-9 m (Fig. 1.15).
 

Fig. 1.15. Crimini idraulici presso il ponte della Bugia commessi dal 1823 (A: Catasto Estense di Massa e Carrara) a oggi (B: da Google Earth). In turchese l’alveo del Carrione; gli edifici presenti nel 1823 sono stati contornati in bianco e quelli sorti in seguito in giallo. I crimini idraulici sono contornati in blu. 1: fila di edifici larga 7-8 m costruita in pieno alveo a valle del ponte (dopo il 1823); 2: edificio sulla via Carriona costruito tra il 1960 e il 1980, sporgente in alveo per 2 m (vedi Fig. 1.14); 3: lunga fascia di alveo (larga 2-7 m) a monte del ponte, occupata per allargare via Vezzala. Si noti che il restringimento dell’alveo ha comportato anche l’accorciamento del ponte, dai 16 m originari agli attuali 8-9 m (freccia nera a doppia punta).

 
È ovvio che questi interventi (il restringimento del ponte e dell’alveo stesso per costruire la fila di edifici in alveo e allargare via Vezzala), aggravando il rischio alluvionale, sono stati nefasti per l’intera città: rappresentano dunque un altro esempio concreto del funzionamento della “fabbrica del rischio alluvionale”.

Scendendo a valle del ponte della Bugia e allargando un po’ lo sguardo, oltre ai crimini già illustrati (ponte Bugia; ponte Forti; Mulino Forti affiancato dalla nuova fila di edifici in alveo; ponte alle Lacrime con un’arcata occlusa), possiamo compiere altre due osservazioni (Fig. 1.16):

  • a monte del ponte Baroncino, a lato della via Carriona, nel 1823 vi era una fila di edifici in alveo (piccoli e stretti), oggi non più esistente: c’è da supporre che siano stati abbattuti, probabilmente perché danneggiati da una piena del Carrione;
  • alla confluenza del canale di Gragnana con il Carrione, nel 1823 l’alveo era molto ampio; in seguito è stato sensibilmente ristretto tra alti muri arginali. Come ogni restringimento dell’alveo, l’intervento ha comportato un ulteriore aggravamento del rischio a valle(8)A rigor di logica, il restringimento dell’alveo, riducendo la capacità idraulica, dovrebbe provocare un aumento del rischio d’esondazione nel tratto ristretto. Tuttavia, proprio per evitare questo aspetto controproducente, il restringimento viene solitamente accompagnato dalla canalizzazione dell’alveo e dalla protezione delle sponde con muri verticali in cemento che, riducendo l’attrito, consentono l’accelerazione della corrente con conseguente abbassamento locale del pelo libero dell’acqua e aumento della capacità idraulica. In tal modo il maggior rischio d’esondazione nel tratto ristretto viene evitato, scaricandolo però sul tratto situato a valle.

 

Fig. 1.16. Principali modifiche lungo il tratto urbano del Carrione dal 1823 a oggi (oltre a quelle già illustrate nella Fig. 1.15). 1: restringimenti dell’alveo del Carrione e del Canale di Gragnana, attuati con muri arginali in calcestruzzo (linee rosse). 2: costruzione del ponte Forti, stretto e basso. 3: edificio sospeso del Mulino Forti. 4: edificio sporgente in alveo a monte del ponte della Bugia. 5: fila di edifici costruiti in alveo a valle del ponte della Bugia; 6: fila di edifici a monte del ponte Forti, costruita interamente in alveo. 7: fila di edifici piccoli e stretti in alveo a monte del ponte Baroncino (presenti nel 1823 e oggi assenti). 8: ponte alle Lacrime (allora con entrambe le arcate pervie e funzionanti).

 
Allargando ancora lo sguardo, è possibile apprezzare, più a valle, altri crimini:

  • due restringimenti associati a rettifica dell’alveo, posti ad angolo retto, tra lo stadio “Fossa dei Leoni” e Pontecimato (Fig. 1.17, tratto 1);
  • un restringimento con “taglio del meandro” nel tratto dallo Stadio dei Marmi a via Brigate Partigiane (Fig. 1.17, tratto 2);
  • l’occupazione dell’area così “guadagnata” (ex meandro del Monticello) da parte di segherie e laboratori di marmo (Fig. 1.17, area 3).

 

Fig. 1.17. Tratto medio del Carrione (da Carrara a Nazzano): principali cambiamenti dal 1823 a oggi. 1: due tratti ad angolo retto a partire dallo stadio Fossa dei Leoni: arginati, ristretti e rettificati (linee tratteggiate). 2: taglio del meandro di Monticello, accompagnato da arginatura e forte restringimento dell’alveo. 3: l’area in giallo, “conquistata” grazie al taglio del meandro, è oggi interamente occupata da segherie e laboratori (che, infatti, sono stati inondati nell’alluvione del 2003).

 
Da Nazzano al mare la carta del Catasto Estense (qui non riportata) mostra che nel 1823 il Carrione era già intensamente rettificato, ristretto e arginato, frutto evidente di interventi effettuati nei secoli precedenti.

In questo paragrafo abbiamo mostrato con un certo dettaglio solo alcuni esempi dei principali crimini idraulici commessi nel tratto di attraversamento del centro storico. È importante, però, essere consapevoli che quelli commessi nell’intero territorio comunale sono innumerevoli: per descriverli, anche succintamente, non basterebbe un corposo volume.

Tenendo conto che ognuno di essi, ovviamente, ha dato il suo contributo all’incremento del rischio, possiamo comprendere che la definizione di “fabbrica del rischio alluvionale” non è uno slogan ad effetto, ma la precisa e concreta descrizione dell’operato delle amministrazioni succedutesi nel tempo.
 
 

1.8      Ridurre il pericolo o il rischio? L’abc del rischio alluvionale

 

Finora abbiamo parlato di rischio alluvionale perché nel linguaggio corrente trasmette un messaggio ben comprensibile. È opportuno, però, chiarirne il significato in maniera più rigorosa, distinguendo in particolare i concetti di rischio e di pericolosità.

Il rischio è il prodotto tra la pericolosità (cioè la probabilità di inondazione dell’area) e il danno che si verifica in caso di alluvione (a sua volta pari al prodotto tra il valore degli elementi esposti all’allu­vionee la loro vulnerabilità)(9)
     P = pericolosità da alluvione (o pericolosità idraulica) è la probabilità di accadimento di un evento alluvionale in un intervallo di tempo prefissato su una determinata area;
      D = Danno potenziale in caso di alluvione dell’area (è pari a E · V);
      E = valore degli elementi esposti al rischio (persone, beni, patrimonio culturale e ambientale ecc.) presenti nell’area;
      V = vulnerabilità degli elementi a rischio, è il grado di danno subito dai beni a rischio nel caso di alluvione. È dunque la predisposizione degli elementi a rischio (edifici, persone, servizi ecc.) ad essere danneggiati da un evento: dipende perciò sia dalla capacità degli elementi a rischio di sopportare l’evento, sia dall’intensità dell’evento stesso. È espressa da valori da 0 (nessun danno) a 1 (perdita totale del bene).

 

                R = P · D                          oppure                               R = P · E · V

Rischio = Pericolosità · Danno             oppure          Rischio = Pericolosità · Valore · Vulnerabilità
 

Traducendo queste formule in un linguaggio elementare, la pericolosità esprime semplicemente la probabilità di allagamento di una data area. Se l’area non è inondabile, la probabilità di inondazione sarà zero, quindi sarà zero anche il prodotto P · D (cioè il rischio). Ma il rischio sarà zero anche in un’area frequentemente inondabile se questa è priva di elementi a rischio (es. se è un prato) poiché, comunque, l’inondazione non provocherà alcun danno. Se, invece, nell’area vi sono molti beni esposti (edifici, colture ecc.), il danno in caso di alluvione sarà elevato, a meno che questi beni siano invulnerabili (es. edifici con aperture sigillate da paratoie a tenuta stagna, colture tolleranti la sommersione ecc.), nel qual caso il danno (e quindi anche il rischio) sarà zero.

Riassumendo, la pericolosità ci dice solo se (e quanto) l’area è inondabile, mentre il rischio implica necessariamente un danno in caso di alluvione. Il rischio, infatti, essendo il prodotto di tre fattori, sarà zero solo quando uno di essi è zero: se l’area non è inondabile (pericolosità zero), se non contiene beni esposti (valore zero) o se questi, pur presenti, non sono danneggiabili dall’alluvione (vulnerabilità zero).

In sintesi, ciò che importa davvero non è necessariamente ridurre la pericolosità (evitando o riducendo l’esondazione in un’area), ma ridurre il rischio (cioè non subire danni). Addirittura, aumentare la pericolosità in aree disabitate (favorendone l’inondazione) può essere una strategia desiderabile poiché, riducendo le portate in alveo, riduce il rischio nelle aree abitate situate a valle.
 
 

1.9      Ridurre la pericolosità? Il cavallo di Troia che aumenta il rischio

 

In generale, gli interventi di “messa in sicurezza” idraulica del territorio sono finalizzati a ridurre la pericolosità (ad es. costruzione di argini per proteggere un’area dall’inondazione). Il problema è che spesso il fine ultimo è avviare o intensificare l’edificazione nell’area così “liberata” dal rischio: in questi casi gli interventi per ridurre la pericolosità sono un cavallo di Troia che conducono all’au­mento del rischio, come illustrato nella Fig. 1.18.
 

Fig. 1.18. Maggior protezione (la costruzione dell’argine) può portare a maggior rischio! A sinistra: l’area con due casolari, inondabile dalla piena trentennale (probabilità annua = 3,3% = 0,033), subisce in tale occasione un danno pari a 40mila €; il prodotto (1.333 €) è il rischio idraulico (cioè il danno medio annuo). A destra: dopo la realizzazione dell’argine protettivo, l’area è inondabile solo dalla piena centocinquantennale (probabilità annua 0,0066); la sua pericolosità si è dunque ridotta di 5 volte. Tuttavia, se l’illusorio senso di sicurezza fornito dall’argine ha indotto l’urbanizzazione dell’area, in caso di alluvione il danno sarà, ad esempio, 10 volte maggiore (400mila €), con un danno medio annuo di 2.666 €: il rischio alluvionale è pertanto raddoppiato! Si noti che l’esempio vale per argini perfettamente funzionanti: nei casi di rotta arginale (eventi tutt’altro che infrequenti), infatti, il danno aumenta in misura ben più rilevante. Fonte: Nardini, Sansoni e coll., 2006. La riqualificazione fluviale in Italia. Mazzanti Editore, Venezia, 832 pag. (ritoccata).

 
Non si pensi che l’aumento del rischio alluvionale a seguito di interventi di protezione sia un caso limite; anzi, spesso è la norma. Molte amministrazioni, infatti, premono per mettere in sicurezza le loro aree inondabili proprio per “svincolarle” dal divieto di edificazione. Così, man mano che si riduce la pericolosità delle aree (cioè la loro inondabilità), queste vengono urbanizzate aumentando il rischio idraulico (Fig. 1.19A).

Non va inoltre dimenticato che ridurre la pericolosità in un’area significa impedire localmente l’esondazione, trattenendo quindi in alveo l’intera portata di piena: ogni riduzione di pericolosità in un’area comporta dunque un aumento del livello di piena in alveo, il che aumenta la pericolosità per le aree poste a valle e innesca la necessità di nuovi interventi difensivi. Si cade così in un circolo vizioso in cui più argini si costruiscono più aumenta il livello idrico in alveo (Fig. 1.19B).
 

Fig. 1.19. A: l’intervento tipico cui si ricorre dopo ogni alluvione è l’erezione di argini (o il loro rialzo) per ridurre la pericolosità nelle aree inondabili. Ben presto, però, in tali aree, erroneamente considerate sicure, si intensifica l’urbanizzazione (aumentano così i beni esposti al rischio d’inondazione) senza adottare accorgimenti che rendano gli edifici intrinsecamente “a prova di alluvione” (aumenta così la vulnerabilità). Il grafico mostra come in Italia negli ultimi 150 anni sia stata ridotta sensibilmente la pericolosità idraulica (linea rossa), ma siano aumentate sia l’esposizione (il valore dei beni esposti: linea azzurra) sia la vulnerabilità (linea viola): in poche parole, nonostante gli sforzi e le spese per ridurre la pericolosità, abbiamo notevolmente aumentato il rischio alluvionale. Il grafico riporta anche le date delle alluvioni più devastanti. B: negli ultimi due secoli lo sviluppo delle arginature sul Po e sui suoi tributari (sull’asse a, in blu scuro) è stato (ovviamente) accompagnato dall’incremento delle altezze idrometriche dei colmi delle massime piene registrate alla stazione di Pontelagoscuro (sull’asse b, in rosso). È evidente che lo sviluppo delle arginature, impedendo l’esondazione e la laminazione delle piene, ha prodotto un incremento dei livelli, accrescendo la pericolosità a valle. Fonti: A: da R. Rosso (Politecnico Milano), webinar Legambiente 8/4/2021 “Ridurre il rischio idrogeologico e tutelare le risorse idriche”. B: figura di Puma (2003), tratta da Nardini, Sansoni e coll., 2006. La riqualificazione fluviale in Italia. Mazzanti Editore, Venezia, 832 pag.

 
 

1.10    L’inganno del cavallo di Troia in pratica: esempi locali

 

Per comprendere quanto sia facile cadere nella trappola di aumentare il rischio idraulico, pur proponendosi di ridurre la pericolosità, ci limitiamo a portare tre esempi locali: l’area Ceci, l’alluvione di Aulla e il Canale di Piastra.

L’area Ceci, interposta tra Avenza e Marina, è una vasta area scampata all’urbanizzazione (salvo i laboratori di marmo adiacenti al Carrione) ed è al momento inedificabile in quanto è a pericolosità idraulica elevata o molto elevata (Fig. 1.20A). Per legge, è dunque possibile l’edificazione solo dopo averla “messa in sicurezza” riducendone la pericolosità alle alluvioni con tempo di ritorno superiore a 200 anni.

Anche a prescindere dagli appetiti di speculazione edilizia, l’area è tuttavia molto allettante per quella concezione di sviluppo, purtroppo largamente diffusa, che vede nell’edificazione e nelle successive attività l’occasione di accrescere l’occupazione e il benessere della comunità.

Così, le amministrazioni Segnanini, Conti e Zubbani hanno prospettato varie previsioni per l’area: nuovo ospedale unico, Warner Village (cinema multisala, negozi…), attività sportive (pattinaggio, palestre, calcetto, pallacanestro…), edilizia residenziale (che, dagli attuali 100 abitanti, sarebbe salita a 1371 ab.), polo direzionale, servizi alla nautica, attività turistico-ricettive ecc.

Nella loro ottica, d’altronde, cosa ci sarebbe stato di male, una volta che l’area fosse stata protetta dalle alluvioni? A questa domanda, sul piano teorico si può rispondere calcolando il rischio idraulico (cioè il danno medio annuo) nelle due situazioni, prima e dopo la protezione dell’area e la sua edificazione.

Il calcolo mostrerebbe che, a dispetto della protezione dell’area (nei confronti dell’alluvione di un dato tempo di ritorno), quanto maggiore è stata l’edificazione nell’area tanto maggiori saranno i danni in caso di inondazione (per un’alluvione con un tempo di ritorno maggiore) e, dunque il rischio idraulico (danno annuo medio).

Ma, soprattutto, le previsioni dei cementificatori si scontrano con la dura realtà: la percezione di sicurezza dell’area protetta da argini, infatti, è basata sui presupposti che non si verifichino piene superiori a quella di progetto e che gli argini non crollino mai. Entrambi i presupposti, tuttavia, sono ampiamente smentiti dai fatti.

In particolare, i crolli arginali sono tutt’altro che rari: basti pensare che nel 2014 ne abbiamo subiti due (argine destro del Parmignola e del Carrione) e che solo due anni prima erano crollati l’argine sinistro del Parmignola (il ‘Muraglione’) e del Carrione a Nazzano.

D’altronde nell’alluvione del 2014 è stata inondata tutta Marina, compresa l’area considerata inondabile solo da piene con tempi di ritorno da 200 a 500 anni (Fig. 1.20B). Pertanto, nel prendere coscienza che la sicurezza fornita dagli argini è sempre aleatoria, dobbiamo considerarci fortunati che i progetti di “sviluppo” urbanistico nell’area Ceci previsti dalle amministrazioni precedenti (contro i quali ci siamo sempre battuti) non siano stati realizzati.

Al tempo stesso, però, dobbiamo essere consapevoli che le precedenti amministrazioni erano cadute nella trappola del “cavallo di Troia” e che questa non si è concretizzata solo perché non sono riuscite a realizzare le loro previsioni urbanistiche.
 

Fig. 1.20. L’inganno del cavallo di Troia in pratica. A: l’area Ceci (perimetrata in verde) è a pericolosità idraulica elevata e, in parte, molto elevata (entro il perimetro blu). Le tre precedenti amministrazioni prevedevano (previa “messa in sicurezza” mediante l’adeguamento dell’argine del Carrione) nuovi insediamenti nell’area; per fortuna non sono riuscite a realizzare tali previsioni, altrimenti, con le alluvioni del 2012 e 2014, saremmo caduti nella trappola del cavallo di Troia (minor pericolosità, ma maggior rischio). B: carta della Pericolosità Idraulica della piana di Carrara, allegata al Piano Strutturale 2009. L’area Ceci, perimetrata in verde, avendo pericolosità elevata (in azzurro, dal lato Viale XX Settembre) e molto elevata (in blu, dal lato Carrione) è inedificabile. Tuttavia il piano strutturale vi prevedeva (previa “messa in sicurezza” mediante l’adeguamento dell’argine del Carrione) l’edificazione residenziale per 1371 abitanti, un polo direzionale, servizi privati (nautica ecc.), attività turistico-ricettive e negozi. L’alluvione del novembre 2014 ha inondato la vasta area perimetrata in turchese (peraltro già inondata anche nel 2012) comprendente non solo l’area Ceci (perimetrata in verde) ma anche tutta Marina (che era considerata sicura nei confronti di alluvioni con tempo di ritorno superiore a 200 anni). La lezione da trarne è che la sicurezza fornita dagli argini non è mai assoluta: permane infatti un “rischio residuo” (per nulla trascurabile) da crollo arginale o suo superamento.

 
Un secondo, tragico, esempio di alluvione di un’area “messa in sicurezza” è quello di Aulla (25-26 ottobre 2011). È stata infatti devastata proprio l’intera parte moderna della cittadina, che era stata costruita in pieno alveo del Magra “strappando” l’area al fiume mediante un robusto argine e sopraelevando con riempimenti il piano di campagna di almeno 6 m (Fig. 1.21).
 

Fig. 1.21. L’alluvione di Aulla del 25/10/2011 è il risultato dell’inganno del cavallo di Troia. A:  negli anni ’50 Aulla (qui in una cartolina del tempo) era un piccolo borgo, con la stazione e una sola fila di case lungo la statale della Cisa; il resto era tutto ambito fluviale (alveo attivo e piana inondabile). Tutta Aulla moderna (palazzi, municipio, supermercati, ecc.) è stata edificata nella piana inondabile (area verde perimetrata dal tratteggio giallo). B: inizio della costruzione del muro arginale (1958), collocato entro l’alveo attivo (si notino le barre ciottolose); poi si riempirà per uno spessore di almeno 6 m il terreno così “strappato” al fiume (si noti l’altezza del riempimento rispetto alle persone sulla sua sommità), realizzando finalmente le condizioni per l’edificazione della città. C: qui, nel campo sportivo adiacente al fiume e frequentemente inondato, sorgerà l’attuale palazzo comunale. Non c’è dunque da stupirsi se il 25 ottobre il Comune è stato sommerso per un’altezza di 3 m, compreso il punto di raccolta designato nel piano di protezione civile. Per fortuna era sera e i bambini non erano a scuola, altrimenti sarebbero stati condotti in una trappola mortale! D: slide di una presentazione che mostrava (nel 2005!) come Aulla sarebbe stata inondata e, nel porre la domanda retorica «fu vero sviluppo?», sottolineava che l’incertezza non era “se” l’evento si sarebbe verificato, ma solo “quando”. L’alluvione si verificò 6 anni dopo sommergendo quasi esattamente l’intera area in turchese (non fu preveggenza ma concreta previsione, basata sulle carte delle aree inondabili redatte dall’Autorità di bacino del Magra). Fonte: A, B e C: foto di Franco Testa, Ed. Mori, 1999. D: Sansoni, 2005. Conferenza “Il bacino del Magra, riflessioni per un futuro sostenibile”. Sarzana.

 

Come terzo caso prendiamo il Canale di Piastra (a monte di Torano), un esempio “geniale” di riduzione della pericolosità in un’area disabitata (dove l’alluvione avrebbe provocato danni limitati) che scarica il rischio in pieno centro città (dove il danno potenziale è molto elevato).

L’alveo del canale è stato inizialmente ristretto per la costruzione del rilevato della ferrovia marmifera (fine ’800) e, dopo la sua dismissione (1964), è stato ulteriormente ristretto e canalizzato per sostituire la ferrovia con la strada camionabile per le cave a doppio senso di marcia.

Un alveo così ristretto, naturalmente, è soggetto a frequenti allagamenti e esondazioni, con le relative problematiche per il transito stradale. Così, come spesso avviene, si è risolto il problema della viabilità cementificando il canale in modo che, grazie allo scorrimento veloce, si abbassi il livello del pelo libero dell’acqua, evitando localmente le esondazioni (Fig. 1.22).
 
Purtroppo, però, il rapido allontanamento delle acque comporta un incremento della portata a valle che causa l’aumento della pericolosità in centro città e, poiché qui vi sono molti più beni esposti (persone, auto, case), un consistente aumento del rischio alluvionale.

In poche parole, nell’ottica limitata di ridurre i disagi e i danni in un’area disabitata, non ci si è nemmeno posti la domanda se, così facendo, non si sarebbero creati più disagi e danni in un’area densamente abitata: d’altronde è proprio questo il funzionamento classico (e perverso) della fabbrica del rischio alluvionale.
 

Fig. 1.22. L’alveo del Canale di Piastra (o Can. di Sponda) è stato in gran parte occupato per dare spazio alla strada camionabile ed è quindi divenuto insufficiente. Per evitare allagamenti della strada, l’alveo è stato cementificato (fondo e sponde) accelerando la velocità della corrente. Il risultato locale è stato ottenuto, ma al prezzo di scaricare un rischio alluvionale ben più elevato nel centro città: è un altro esempio concreto del funzionamento della “fabbrica del rischio alluvionale”.

 
 
 

2.   IDROLOGIA PRATICA

 

Molti pensano che le alluvioni, essendo un fenomeno naturale, dipendano solo dall’entità delle precipitazioni e che, pertanto, l’uomo abbia ben poche possibilità di prevenirle o controllarle. In realtà, a parità di precipitazioni, l’entità della piena generata dipende grandemente dallo stato del territorio: è quest’ultimo, infatti, che determina se la piena resterà contenuta in alveo o esonderà in maniera catastrofica. La prevenzione delle alluvioni è dunque strettamente legata alla gestione del territorio.

Nei paragrafi precedenti abbiamo già visto alcuni esempi di interventi umani (tra i quali diversi crimini idraulici) che hanno generato l’elevato rischio alluvionale cui è soggetto il centro città. Ma non vi sono solo gli errori del passato. Molti altri crimini che incrementano il rischio (ai quali vanno aggiunti interventi controproducenti, seppur dettati dalle migliori intenzioni) vengono commessi quotidianamente: li abbiamo sotto il naso ogni giorno, ma non ce ne rendiamo conto perché non abbiamo sufficienti conoscenze di idrologia.

Scopo di questo capitolo è mettere ogni cittadino in grado di conoscere le singole fasi del meccanismo di formazione dell’onda di piena (la trasformazione degli afflussi meteorici nei deflussi superficiali) e, dunque, sia di capire quali interventi potremmo adottare in ciascuna fase per ridurre la frequenza e l’entità delle piene, sia di riconoscere gli interventi controproducenti, ai quali occorre porre rimedio.

L’obiettivo è formare cittadini consapevoli, capaci di rendersi pienamente conto del perché la gestione del territorio attuata (o consentita) dall’ammini­strazione comunale conduca (involontariamente, ma spesso consapevolmente) ad accrescere il rischio alluvionale. Non si abbia alcun timore reverenziale: questo manuale di autodifesa è concepito per essere alla portata di tutti. Per essere in grado di difenderci da chi sta preparando le prossime alluvioni, infatti, non occorre la conoscenza di formule complesse: è sufficiente il semplice buonsenso.

 

2.1      Idrologia per tutti: principi fondamentali

 

Iniziamo da un evento piovoso e seguiamo come si ripartisce l’acqua piovana (Fig. 2.1). Per un tempo più o meno lungo dall’inizio della pioggia la portata nei corsi d’acqua non subisce alcuna variazione: le gocce d’acqua, infatti, sono intercettate dalle foglie della copertura arborea e sgocciolano sulle foglie sottostanti, poi scorrono lentamente sui rami e lungo il tronco.

Prima di raggiungere il suolo, l’acqua incontra ancora la lettiera di foglie secche (o lo strato erbaceo) che ne assorbe una parte e rallenta notevolmente lo scorrimento della parte restante. Nelle fasi finora descritte, inoltre, parte dell’acqua viene restituita all’atmosfera per evaporazione e per traspirazione (cioè per pompaggio attivo dalle radici verso le foglie, dalle quali traspira come vapore). Solo dopo aver ben inzuppato la lettiera, l’acqua giunge a contatto con il suolo e vi si infiltra, nella zona areata (insatura).
 

Fig. 2.1. A: principali fasi della formazione dei deflussi dopo un evento piovoso. Dopo l’intercettazione da parte della copertura vegetale, l’acqua raggiunge il suolo e si infiltra nella zona areata del terreno che ne assorbe grandi quantità; percola poi nella zona satura e nell’acquifero, i cui livelli si innalzano e danno luogo, per gravità, al deflusso ipodermico (o sub-superficiale) e a quello di base (sotterraneo). Alla formazione della piena (deflusso in alveo) contribuiscono il deflusso superficiale (con tempi di risposta molto rapidi), quello ipodermico (più lento) e quello di base (ancora più lento e quantitativamente meno importante). B: visione schematica della ripartizione delle acque di una precipitazione. Fonti: A: Cancelliere, 2006. Corso di Idrologia applicata. Modelli afflussi-deflussi per la valutazione delle portate di piena. Univ. di Catania (ritoccata). B: Dalla Fontana, 2013. Fondamenti di Idrologia. Univ. di Padova (ritoccata).

 

Fino a questo punto i corsi d’acqua non hanno ancora ricevuto le acque piovane (salvo la minima frazione che è caduta direttamente nel loro alveo). Anche le acque che restano trattenute stabilmente nelle depressioni (acque di ritenzione superficiale: Fig. 2.2A) non raggiungono gli alvei; quelle di detenzione superficiale (temporanea) scorrono in strato sottile (Fig. 2.2B), quindi con velocità ridotta, e raggiungeranno gli alvei solo in seguito.

Le prime acque a raggiungere il reticolo idrografico sono quelle incanalate nelle linee di impluvio occasionali, normalmente asciutte (Fig. 2.3C).
 

Fig. 2.2. A: ritenzione superficiale: acqua immagazzinata in superficie in forma statica (pozzanghera; permane alla fine dell’afflusso). B: detenzione superficiale: acqua immagazzinata in forma dinamica; fa parte del deflusso superficiale (areale, lento) e cessa alla fine dell’afflusso. C: deflusso superficiale incanalato lungo un linea di impluvio occasionale; alla base dei versanti il deflusso si arricchisce di apporti sub-superficiali (ipodermici), soprattutto in presenza di incisioni dell’alveo che fanno emergere il deflusso ipodermico. Fonte: Dalla Fontana, 2013. Fondamenti di Idrologia. Univ. di Padova.

 
La parte di gran lunga principale del deflusso superficiale (quella che scorre negli alvei e dà origine alle piene) è alimentata dal deflusso ipodermico e, dovendo prima infiltrarsi nel suolo e far innalzare il livello della zona satura, inizia a comparire con un notevole ritardo dall’inizio della precipitazione (anche perché il percorso tra le particelle di suolo è molto lungo e tortuoso e rallenta lo scorrimento idrico).

Mentre nei periodi asciutti il fiume è alimentato dalle acque di falda (deflusso di base), nel corso di una precipitazione intensa si verificano, in successione ordinata, i seguenti eventi:

  1. la pioggia è intercettata dalla copertura vegetale del terreno;
  2. l’acqua si infiltra nella zona areata del suolo che, saturandosi gradualmente, ne immagazzina una notevole quantità;
  3. dal terreno che man mano si satura, l’acqua percola nella sottostante zona satura, elevando il livello della superficie freatica;
  4. nella zona satura l’acqua inizia a scendere secondo la pendenza, dando luogo al deflusso ipodermico che, dopo un certo ritardo, raggiungerà un piccolo impluvio dando origine al primo deflusso superficiale nel reticolo idrografico minuto (solitamente asciutto);
  5. il deflusso superficiale dei piccoli impluvi confluisce progressivamente fino a raggiungere l’alveo principale (Fig. 2.3C, fase 2);
  6. dopo questo primo apporto, la portata in alveo continua a aumentare con velocità crescente poiché, con l’incalzare della pioggia, la sua intensità arriva a superare la capacità di infiltrazione del terreno e scorre così in superficie: aumenta quindi il tasso di ruscellamento superficiale(10)Questo processo di ruscellamento derivante dal superamento della capacità di infiltrazione della pioggia nel terreno è noto come meccanismo Hortoniano di rifiuto del terreno. Si osserva prevalentemente in suoli sottili e poco permeabili o nelle aree prive di vegetazione, con substrato compatto e ridotta capacità d’infiltrazione (es. strade, suolo ghiacciato; nelle Apuane, alle alte quote).;
  7. nel contempo, i diversi suoli vengono progressivamente saturati e aumenta pertanto l’area del bacino satura che alimenta il deflusso superficiale(11)Meccanismo Dunniano di aumento dell’area satura contribuente (al deflusso superficiale). Si osserva quando la pioggia cade su un versante già saturato a seguito del deflusso sottosuperficiale che proviene da monte con un’intensità superiore alla conducibilità idraulica a saturazione (nelle Apuane, alle basse quote). (Fig. 2.3C).

 

Fig. 2.3. A: in condizioni di magra il fiume è alimentato dalla falda (freccia). B: in condizioni di piena il livello idrico in alveo sale molto più rapidamente di quello della superficie freatica, perciò è il fiume che alimenta la falda adiacente (freccia bianca); a maggior distanza dal fiume la superficie freatica si innalza, alimentata dalle acque infiltratesi nel suolo (freccia nera). Nota: la falda in condizioni di magra è colorata in turchese; lo spessore alimentato dalla piena e dalle precipitazioni è stato colorato in celeste per meglio distinguerlo, ma ovviamente si tratta di un’unica falda la cui superficie si è innalzata. C: sezione di un versante (a sinistra) e (a destra) vista in pianta del bacino idrografico (con, alla sua destra, la fase dell’idrogramma di piena). Partendo da un periodo asciutto (1) una precipitazione intensa si manifesta (dopo un dato ritardo) con l’aumento della portata in alveo, inizialmente in modo quasi impercettibile (fase 2), poi sempre più rapidamente per il veloce incremento dei terreni saturi al piede dei versanti e, pertanto, dell’area del bacino che apporta contributi idrici in alveo (fasi 3-5). In ciascun grafico la freccia rossa e la corrispondente linea punteggiata indicano in quale momento della piena ci troviamo (la fase 5 corrisponde al colmo di piena). Fonte di C: in parte da Le piene dei corsi d’acqua. Univ. de L’Aquila (http://diceaa.univaq.it/wp-content/uploads/2018/03/Parte-seconda-Piene-dei-corsi-dacqua.pdf) e in parte da Kirkby, 1978. Hillslope hydrology. J. Wiley, Chichester, G.B., 389 pp.

 
La velocità crescente della saturazione idrica del terreno e il conseguente incremento dell’area satura che contribuisce al deflusso superficiale conduce alla crescita esponenziale della portata in alveo che dà luogo alla tipica forma a campana del picco di piena.
 
 

2.2      Importanti implicazioni dei principi fondamentali

 

Riflettendo sulle 7 fasi descritte nel paragrafo precedente possiamo trarre considerazioni di grande interesse e della massima importanza pratica: tutta l’acqua caduta nelle prime 4 fasi elencate nel paragrafo precedente si infiltra nel suolo (o è restituita all’atmosfera o è trattenuta nelle depressioni del suolo) e, pertanto, NON contribuisce allo scorrimento superficiale e alla formazione del picco di piena(12)In realtà una parte del deflusso ipodermico emergerà in superficie contribuendo al picco di piena. Tuttavia questa parte è interamente sostituita da nuova infiltrazione nel suolo, per cui il contributo netto alla piena del deflusso ipodermico resta uguale a zero. In altre parole, possiamo immaginare che, una volta saturato lo strato profondo del suolo (deflusso sotterraneo o di base) e il suo strato superficiale (deflusso ipodermico), le nuove acque precipitate scorrano direttamente in superficie oppure che (il che è lo stesso) l’acqua ipodermica emerga in superficie contribuendo alla formazione della piena, ma sia sostituita dall’infiltrazione della nuova acqua precipitata..

Ciò è mostrato in forma sintetica nella Fig. 2.4A e, in maniera più dettagliata nella Fig. 2.4B.
 

Fig. 2.4. A: l’idrogramma di piena è costituito dalle sole portate che scorrono in superficie (in rosso). Il deflusso ipodermico (nello strato superiore del suolo) è molto più lento di quello superficiale (poiché l’acqua compie un percorso molto più lungo e tortuoso tra i granuli del terreno e perde energia per attrito): la sua portata, pertanto, cresce gradualmente e forma un picco basso. Il deflusso sotterraneo (o di base) si distribuisce su tempi molto lunghi (da settimane a anni) e, pertanto, non varia nel corso della piena; il suo ruolo è alimentare il deflusso nei lunghi periodi non piovosi. B: ripartizione di dettaglio delle varie componenti delle acque di una precipitazione. Nel primo periodo dall’inizio di una precipitazione, solo una minima frazione dell’acqua caduta scorre in superficie (quella che cade direttamente in alveo: in giallo); il resto è intercettato dalla vegetazione e dalle depressioni del suolo o si infiltra nel suolo ripristinandone la riserva idrica; poi inizia a scorrere lentamente nel sottosuolo (deflusso sotterraneo) e poi nel suolo (deflusso ipodermico). Solo dopo queste fasi (che sottraggono grandi quantità alla formazione della piena) inizia lo scorrimento superficiale (in rosso) che genera il picco di piena. È evidente che una parte importante delle acque cadute non contribuisce alla formazione della piena. Fonte: Barazzuoli, 2019. Valutazione delle risorse idriche superficiali e sotterranee. Univ. di Siena.

 
Appurato che le acque infiltratesi nel suolo non contribuiscono all’onda di piena, è evidente che quanto maggiore è lo spessore del suolo, tanto maggiore sarà la quantità di acqua che esso può immagazzinare, sottraendola allo scorrimento superficiale. È peraltro intuitivo che sulla nuda roccia impermeabile quasi tutta l’acqua caduta scorre direttamente in superficie, mentre in un terreno permeabile una parte di essa resterà immagazzinata e, dunque, non contribuirà alla piena.

È proprio sulla base di queste considerazioni che Legambiente, verificato che lo studio delle portate di piena previste per il Carrione aveva considerato impermeabili le superfici coperte da ravaneti, ha segnalato alla Regione che ciò aveva portato alla sovrastima delle portate di piena, come abbiamo descritto nel paragrafo 1.5. Il ricalcolo delle portate ha confermato la fondatezza dell’osservazione (mostrando che la sovrastima era stata di ben 40 m3/s) e ha permesso di salvare i ponti storici.

Cominciamo così a renderci conto non solo che i principi fondamentali dell’idrologia sono di facile comprensione, ma anche che sono tutt’altro che elucubrazioni teoriche: forniscono, anzi, le basi per capire come le modifiche del suolo operate dall’uomo agiscano sulla formazione dei picchi di piena (accentuandoli o mitigandoli) e ci consentono così, molto concretamente, di individuare quali interventi aggravino il rischio alluvionale e quali, invece, possiamo adottare per ridurlo.
 
 

2.3      Prima che l’acqua scorra in superficie (suolo e forestazione)

 

È ben noto che la copertura forestale di un bacino idrografico fornisce la massima protezione dal rischio alluvionale: essa, infatti, grazie alla chioma, massimizza l’intercettazione e l’evaporazione della pioggia caduta; grazie al pompaggio attivo di acqua dalle radici alle foglie, ne favorisce l’evapotraspirazione; le numerose piccole depressioni del suolo fra i tronchi incrementano la ritenzione e la detenzione dell’acqua caduta al suolo; la lettiera di foglie secche funziona come una spugna e fornisce cibo e habitat alla pedofauna (gli animaletti che vivono nel suolo) che, producendo humus, incrementa lo spessore del suolo e lo rende soffice e assorbente, favorendo l’infiltrazione delle acque (nel suolo e nel sottosuolo). L’insieme di questi meccanismi sottrae grandi quantità di acqua alla formazione delle piene.

Per una piena comprensione dei molteplici effetti positivi della forestazione si invita all’attenta lettura della mappa concettuale della Fig. 2.5 che ne mostra in dettaglio la lunga e ramificata catena di effetti.
 

Fig. 2.5. Mappa concettuale degli effetti della forestazione. Tra i molteplici effetti positivi, evidenziati nei riquadri gialli, vi è la riduzione del rischio alluvionale. Si richiama l’attenzione sui riquadri 18, 19, 23, 24 e 27 poiché si tratta degli stessi meccanismi d’azione dei ravaneti spugna (che saranno trattati in seguito). Fonte: G. Sansoni e P.L. Garuglieri, 1993. Il Magra. Analisi, tecniche e proposte per la tutela del fiume e del suo bacino idrografico. Ed. WWF Italia, 95 pp.

 
Senza dimenticare l’alimentazione degli acquiferi e l’effetto filtrante e depurante, che forniscono fiumi e sorgenti con acque più limpide, ai fini di questo manuale che focalizza l’attenzione sul rischio alluvionale ci soffermiamo sull’effetto benefico più importante della copertura forestale: l’incremento della frazione di acque meteoriche che si infiltra nel suolo.

Questo incremento, infatti, ha un duplice effetto: immagazzina grandi quantità di acqua nel suolo (sottraendola al deflusso superficiale e alla formazione dei picchi di piena) e riduce grandemente la velocità di scorrimento delle acque infiltratesi (poiché all’interno del suolo scorrono molto più lentamente)(13)In un corso d’acqua in piena la velocità della corrente può superare 5-10 m/s, mentre in un suolo poroso è enormemente più bassa. Il coefficiente di conduttività idraulica, infatti, si misura in cm/s: nelle ghiaie (un substrato molto permeabile) varia da 10-2 a 1 cm/s; nelle sabbie fini o argillose (poco permeabili) da 10-7 a 10-3 cm/s. In un ravaneto composto da una miscela di scaglie grossolane e fini, pietrisco e sabbia grossolana può raggiungere 5-10 cm/s, dunque una velocità 100 volte inferiore a quella delle acque superficiali..
 
 

2.4      Dall’idrologia all’idraulica: confluenze sincrone o sfasate

 

Se l’idrologia studia la distribuzione e la circolazione dell’acqua sulla terra (nei suoi diversi stati: liquido, solido, vapore) attraverso mezzi molto eterogenei (mari, atmosfera, suolo, sottosuolo), l’idraulica si occupa dei movimenti dell’acqua in mezzi confinati e relativamente omogenei (fiumi naturali, canali artificiali, tubi ecc.).

Una volta che, a partire da una precipitazione, l’acqua comincia a raccogliersi negli alvei e a scorrere in essi, i principi fondamentali dell’idraulica ci aiutano a capire il ruolo che i fenomeni di formazione e di trasferimento del deflusso superficiale rivestono nella genesi delle onde di piena (oltreché dei processi erosivi nei bacini idrografici).

Abbiamo già visto nella Fig. 1.5 l’importanza della geometria del bacino. In un bacino ad anfiteatro i vari affluenti tendono a convergere quasi contemporaneamente, perciò i loro picchi di piena si sommano dando luogo a un brusco incremento di portata, potenzialmente devastante. Se, invece, il bacino ha forma allungata, gli affluenti provenienti dai versanti si immetteranno l’uno dopo l’altro nell’asta principale, la cui portata incrementerà gradualmente.

Ragionare per iperboli (esagerando la realtà) è spesso uno stratagemma efficace per comprenderla meglio. Immaginiamo un bacino allungato percorso da un’asta fluviale che riceve a distanze regolari affluenti aventi portate uguali e immaginiamo che i loro picchi di piena siano di durata brevissima (tanto che tra l’uno e il successivo la portata scenda a zero). In tal caso l’asta principale sarà percorsa da una sequenza di picchi che –se l’alveo ha una capacità idraulica sufficiente ad accogliere la portata di un picco– transiteranno senza esondare (Fig. 2.6A).

Ora immaginiamo invece un bacino ad anfiteatro nel quale i cinque affluenti convergano a raggiera: gli stessi brevi picchi di piena non saranno sfasati, ma confluiranno contemporaneamente al centro dell’anfiteatro dove, sommandosi, daranno luogo a un picco molto elevato (Fig. 2.6B). Affinché non si verifichi un’alluvione, l’asta principale deve avere una capacità idraulica ben maggiore che nel caso precedente (almeno pari alla sommatoria dei cinque picchi).
 

Fig. 2.6. Esperimento mentale per comprendere l’influenza della geometria del reticolo idrografico nella generazione delle piene. A: i picchi di piena apportati da ciascun affluente (indicato da una freccia) sono immaginati come se avessero una durata brevissima; in tal caso l’asta principale sarebbe percorsa da più picchi isolati (uno dopo ciascun affluente) che scorrono verso valle mantenendo la propria identità. Lo schizzo inferiore mostra la stessa sequenza di picchi nell’asta principale dopo qualche tempo. B: nella configurazione ad anfiteatro, invece, i picchi di piena degli affluenti confluiscono contemporaneamente producendo un picco molto più elevato (6). Pertanto, per evitare l’esondazione, l’alveo principale deve avere una capacità idraulica molto superiore. Il bacino montano del Carrione ha proprio questa configurazione; il cerchietto rosso indica l’ubicazione di Carrara. Fonte: Legambiente Carrara.

 
La configurazione ad anfiteatro del bacino montano è dunque intrinsecamente propensa a generare alluvioni alla confluenza e richiederebbe pertanto la massima prudenza nella realizzazione degli insediamenti (occorrerebbe edificare a distanza di sicurezza ed evitare ogni restringimento dell’alveo). Come si è visto, Carrara si è insediata proprio nella situazione a maggior rischio idraulico (alla confluenza degli affluenti) e, sfidando ogni prudenza, ha costruito addirittura intere file di edifici in alveo, restringendolo (anziché allargarlo).
 
 

2.5      Rallentare i deflussi!

 

Nei paragrafi 2.1 e 2.2 abbiamo visto il ruolo decisivo nell’attenuazione delle portate di piena svolto dal rallentamento del deflusso delle acque piovane, grazie alla loro infiltrazione nel suolo (più intensa se questo è poroso e forestale). Per consolidare l’apprendimento di questo concetto fondamentale compiamo un altro esperimento mentale.

Immaginiamo che l’intero volume d’acqua di una precipitazione intensa sul bacino montano del Carrione sia racchiuso in una botte enorme. È intuitivo capire che, se rovesciamo la botte scaricandone d’un colpo l’intero volume, Carrara sarà investita da un’onda di piena catastrofica (Fig. 2.7A).

Se, invece, scarichiamo la botte gradualmente attraverso un rubinetto, l’onda di piena del Carrione sarà molto più bassa e prolungata nel tempo e transiterà senza esondare (Fig. 2.7B).
 

Fig. 2.7. Esperimento mentale. A: se versiamo di colpo milioni di m3 d’acqua sul bacino montano del Carrione, avremo poco dopo un picco di piena molto accentuato (catastrofico). B: se lo stesso volume viene versato lentamente, l’onda di piena sarà estremamente bassa (innocua). L’esperimento mentale è finalizzato a mostrare che ridurre la velocità dei deflussi è una strategia molto efficace per ridurre il rischio alluvionale.

 
Si può obiettare che “mettere un rubinetto” alle precipitazioni per regolarne a piacere il deflusso non rientra nelle nostre possibilità o, quantomeno, richiederebbe la costruzione di una diga che trattenga le acque in un grande invaso, dal quale possano essere scaricate regolandone lo scarico.

Non è questa, però, la soluzione che si intende proporre. Il grande invaso, infatti, può essere costituito anche da spessi strati di suolo capaci di assorbire grandi quantità di acqua, sottraendone una parte alla formazione della piena (si vedano il reintegro della riserva idrica del suolo e il deflusso sotterraneo nella Fig. 2.4B) e rallentando il deflusso della parte che, infiltratasi, è costretta a compiere un percorso lungo e tortuoso tra le particelle del suolo (deflusso ipodermico in Fig. 2.4B).

Ma ecco pronta la nuova obiezione: il suolo è quello che la natura ha costruito nel corso di millenni. Se gli alti versanti del bacino del Carrione hanno un substrato roccioso impermeabile (o, al più, una copertura erbacea con un sottile strato di suolo), non possiamo mica fabbricarlo il suolo!

Obiezione vera. Purtuttavia, nei secoli scorsi gli alti versanti dei bacini marmiferi sono stati coperti da discariche di cava (localmente dette ravaneti): imponenti estensioni e spessori di scarti del­l’estrazione che, pur non essendo suolo, possono vicariarne le funzioni idrologiche di assorbimento delle acque e di rallentamento del loro deflusso. In altre parole, i ravaneti funzionano come una botte di raccolta con rubinetto, che fa transitare molto lentamente le acque di una precipitazione.

Per comprendere la funzione idrologica svolta dai ravaneti ci è dunque bastato un semplice esperimento mentale. Tuttavia, per mostrare che gli esperimenti di questo tipo non sono fantasiose farneticazioni, ma hanno un solido fondamento scientifico, abbiamo realizzato anche un esperimento concreto, sia pure in miniatura.

 

2.6      Rallentare i deflussi con i ravaneti: esperimento domestico per increduli

 

Per vedere con i nostri occhi l’efficacia dei ravaneti spugna abbiamo allestito un apparato sperimentale che riproduce, in miniatura, un’intensa precipitazione nel bacino montano e la conseguente onda di piena che si genera nel Carrione, mettendo a confronto simultaneo due condizioni: l’una con il bacino privo di ravaneti e l’altra col bacino coperto da ravaneti spugna. L’esperimento, compreso il video, è illustrato nella Lettera aperta “alluvione e ravaneti spugna”: esperimento per increduli e viene qui riassunto.

L’apparato sperimentale è estremamente semplice (Fig. 2.8): la pioggia è generata da un piccolo annaffiatoio (mezzo litro); il ripido bacino montano ad anfiteatro è simulato da un imbuto (al cui collo è collocata Carrara); l’acqua in uscita dall’imbuto cade in un alto cilindro graduato in plexiglass al fondo del quale è stato praticato un piccolo foro; una cannuccia da bibite inserita nel foro rappresenta la principale strozzatura idraulica del Carrione (il Ponte della Bugia, in pieno centro città); la sottostante bottiglia graduata di raccolta misura il volume cumulativo che transiterebbe a valle del ponte qualora (come nell’esperimento) ne fosse impedita l’esondazione; per una miglior visibilità l’acqua è stata colorata in verde.
 

Fig. 2.8. Vista d’insieme del semplice apparato sperimentale per verificare l’efficacia dei ravaneti spugna.

 
Il cilindro graduato di plexiglass, raccogliendo le acque uscite dall’imbuto, rappresenta il Carrione a Carrara, a monte della strozzatura idraulica del Ponte della Bugia (la cannuccia da bibite) e costituisce l’idea centrale dell’esperimento. Infatti, poiché nel cilindro l’acqua scorre in verticale (anziché in orizzontale come nel fiume reale), il cilindro stesso funziona da “amplificatore del segnale” e rende possibile cogliere a colpo d’occhio il transito dell’onda di piena, misurarne le variazioni e ricostruirne più accuratamente l’andamento.

L’esperimento è stato condotto simultaneamente in parallelo: con un imbuto munito di un filtro a due strati tra i quali è stato interposto un materassino di sabbia asciutta (che simula il comportamento del ravaneto spugna) e l’altro imbuto col solo filtro privo di sabbia, a simulare il bacino senza ravaneti.

Il risultato (Fig. 2.9A) è impressionante: con il ravaneto asciutto si ottiene un picco di piena molto più basso (un abbassamento di 212 mm: da 343 a 131 mm) e ritardato (80 sec dall’inizio della pioggia, anziché 40 sec). Le sottili linee tratteggiate mostrano che il volume raccolto nella bottiglia scende da 500 mL (senza ravaneto) a 400 mL (col ravaneto): in pratica, il ravaneto asciutto, funzionando da spugna, ha assorbito 100 mL, sottraendoli ai deflussi.
 

Fig. 2.9. A: risultati del primo esperimento. Il livello del picco di piena nel bacino senza ravaneti raggiunge 343 mm e soli 131 mm nel bacino col ravaneto asciutto: l’abbassamento è veramente notevole (212 mm). La linea tratteggiata rossa mostra che, in assenza di ravaneti, al termine dell’esperimento l’intero volume piovuto (500 mL) è transitato a valle; la linea tratteggiata blu, invece, mostra che nel bacino con ravaneti asciutti sono transitati solo 400 mL: la differenza (100 mL) rappresenta il volume d’acqua che è rimasto assorbito nel ravaneto spugna. B: sintesi dei risultati principali di entrambi gli esperimenti. Il ravaneto saturo riduce il picco di piena di 180 mm (interamente attribuibili all’effetto rallentamento del deflusso), mentre il ravaneto asciutto fornisce un’ulteriore riduzione di 32 mm (attribuibile all’effetto spugna).

 
Per stabilire in quale misura l’abbassamento del picco di piena sia dovuto all’effetto spugna e in quale misura all’effetto rallentamento dei deflussi abbiamo condotto un secondo esperimento, fondato su un elementare principio ispiratore: se il ravaneto è completamente saturo d’acqua, non può assorbirne altra (l’effetto spugna è dunque annullato). In queste condizioni, pertanto, la riduzione del picco di piena ottenuta sarà attribuibile al solo effetto rallentamento.

Subito dopo il primo esperimento (quindi col ravaneto ormai saturo), lo abbiamo perciò ripetuto generando una seconda pioggia di 500 mL su entrambi gli imbuti. Anticipiamo subito che in entrambe le bottiglie, il volume finale raccolto è stato di 500 mL: ciò conferma che in questo caso l’effetto spugna è stato nullo.

I risultati di entrambi gli esperimenti, posti a confronto nella Fig. 2.9B, sono molto illuminanti: dei 212 mm di riduzione del picco di piena ottenuti col ravaneto asciutto, ben 180 sono merito dell’effetto rallentamento dei deflussi e solo 32 dell’effetto spugna.

I due piccoli esperimenti domestici hanno dunque confermato l’esperimento mentale del paragrafo precedente e quanto sosteniamo da anni: i ravaneti spugna (che forse sarebbe più appropriato chiamare “ravaneti frenanti”) forniscono un notevole contributo alla riduzione dei picchi di piena; la massima riduzione è fornita dai ravaneti asciutti; il meccanismo prevalente di riduzione del rischio alluvionale è il rallentamento dei deflussi (le acque piovane si infiltrano nel corpo dei ravaneti e sono costrette a compiere un percorso lungo e tortuoso negli interstizi tra i frammenti rocciosi) e, pertanto, anche i ravaneti saturi d’acqua (ad es. dopo diverse giornate piovose) continuano a fornire un notevole contributo alla riduzione del rischio alluvionale(14)Si potrebbe pensare che, una volta saturo, il ravaneto non possa assorbire più acqua e, pertanto, non eserciti più alcun rallentamento dei deflussi. In realtà, l’acqua contenuta nel ravaneto continua a defluire, per gravità, al suo piede, liberando così spazio alla sua sommità dove, pertanto, si infiltrano nuove acque piovane. Anche i ravaneti saturi continuano quindi a rallentare la velocità di deflusso di una frazione delle nuove acque meteoriche (pari alla quantità di acqua che sgorga al loro piede)..

Merita ricordare l’ulteriore conferma, ben più autorevole, rappresentata dal ricalcolo delle portate di piena previste per il Carrione (studio Castelli, 2018) effettuato su richiesta di Legambiente di tener conto delle caratteristiche idrologiche dei ravaneti, come descritto nel paragrafo 1.5.

Tutto ciò ci insegna a non sottovalutare l’importanza degli esperimenti mentali che poi, in soldoni, si traduce nell’importanza di usare il cervello e il buonsenso traendo deduzioni logiche dallo studio e dalla conoscenza dei meccanismi dell’idrologia.

 

2.7      I ravaneti spugna: ma non comportano anche pericoli?

 

L’intero quadro conoscitivo fin qui esposto dimostra che i ravaneti spugna fornirebbero un contributo veramente rilevante alla riduzione dei picchi di piena. È dunque evidente che, se vogliamo gestire il bacino montano nell’interesse della comunità, dobbiamo realizzare concretamente i ravaneti spugna.

È tuttavia doveroso prenderne preliminarmente in considerazione i possibili effetti controproducenti. L’esperienza, infatti, ci ha insegnato che i ravaneti attuali hanno un’elevata propensione a franare producendo ingenti colate detritiche che, colmando gli alvei sottostanti, provocano esondazioni già nel bacino montano (Fig. 2.10 e 2.11).
 

Fig. 2.10. Ravaneto di Pescina, visto dal piede della via d’arroccamento che su di esso s’inerpica. Le linee tratteggiate indicano i versanti e ci ricordano che ci troviamo in una valle (del Fosso di Pescina) il cui fondo è stato sepolto dal ravaneto. Con le precipitazioni eccezionali, le terre contenute nel ravaneto fluidificano e innescano la frana dell’intero ravaneto. 2003: strada comunale interamente sepolta dai detriti del ravaneto franato (che, superata la strada, si sono riversati nel sottostante Fosso Porcinacchia). 2009: il ravaneto risistemato, con la nuova via d’arroccamento asfaltata. 2014: una nuova frana del ravaneto ha spazzato via la strada d’arroccamento asfaltata e quella comunale al suo piede, scavando una voragine che ha sfiorato –asportandone il giardino ma lasciandola miracolosamente intatta– la casetta abitata (nel cerchio).

 

Fig. 2.11. Vicissitudini del ravaneto di Piastra, soggetto a frane per il suo contenuto di terre. 2003: il ravaneto è franato rovinosamente invadendo la strada e il canale di Piastra e seppellendo macchinari (freccia). 2010: il ravaneto è stato sistemato ed è stata costruita una nuova via d’arroccamento, la cui rampa d’accesso sostenuta da blocchi è visibile a destra (freccia). 2014: la nuova frana ha spazzato via l’intera via d’arroccamento (compresa la rampa d’accesso) ed ha sepolto e schiacciato il tubo di drenaggio in corrugato metallico (freccia). 2020: dopo il 2014 il ravaneto è stato dismesso; al suo piede sono stati realizzati bastioni in blocchi per evitare nuove invasioni della strada nel caso di nuove frane dei detriti rimasti.

 
Affinché i ravaneti spugna non diventino un rimedio peggiore del male, occorre dunque comprendere e rimuovere le cause della loro franosità, chiarite da vari studi(15)Ci limitiamo qui a citare due lavori di ricercatori locali.
1) Baroni C., Bruschi G., Criscuolo A., Ribolini A., 2000. Human-induced hazardous debris flows in Carrara marble basins (Tuscany, Italy). Earth Surf. Process. Landforms, 25: 93-103.
2) Cortopassi P.F., Daddi M., D’amato Avanzi G., Giannecchini R., Lattanzi G., Merlini A., Milano P.F., 2008. Discariche di cava e instabilità dei versanti: valutazione preliminare di alcuni fattori significativi nel bacino marmifero di Carrara (Italia). Italian Journal of Engineering Geology and Environment, Special Issue, 1: 99-118.
. In sintesi:

  • i ravaneti, grazie alla loro permeabilità, svolgono la funzione di serbatoi artificiali, in grado di assorbire significativi quantitatividi pioggia, rilasciandoli poi con gradualità e laminando quindi le piene torrentizie, mitigando il rischio idrogeologico per gli abitati posti a valle;
  • allungano sensibilmente (di alcune ore) i tempi di corrivazione delle acque di ruscellamento (cioè rallentano i deflussi);
  • per tali motivi, la rimozione dei ravaneti (in particolare di quelli più vecchi e stabili) sarebbe controproducente poiché condurrebbe a un aumento del rischio alluvionale (per accelerazione dei deflussi);
  • i ravaneti recenti sono soggetti a instabilità, sia per erosione prodotta da intenso ruscellamento diffuso, sia per vere e proprie frane che danno luogo a colate detritiche (debris flow) di materiali grossolani in matrice più fine;
  • i materiali erosi finiscono nell’alveo dei corsi d’acqua riducendone la capacità idraulica (in maniera limitata e graduale con le piogge ordinarie o massiccia e impulsiva nel caso delle colate detritiche); questo meccanismo, innalzando il letto del Carrione, è stato determinante nell’allu­vione di Carrara del settembre 2003;
  • i ravaneti più vecchi (derivanti dall’escavazione con esplosivi) sono sostanzialmente stabili, mentre quelli degli ultimi decenni sono particolarmente instabili. Tale instabilità è dovuta al notevole incremento delle frazioni fini (marmettola e terre) conseguente sia alle nuove tecniche di taglio con utensili diamantati (che producono marmettola) sia alla ripresa della “coltivazione” dei ravaneti per ricavarne carbonato di calcio (poiché si asportano le scaglie grossolane lasciando in posto i materiali fini). Si sta dunque assistendo sia alla riduzione volumetrica dei ravaneti (per l’asportazione delle scaglie: Fig. 2.12, 2.13 e 2.14) che a imponenti cambiamenti della loro composizione granulometrica, che passa dall’assoluta predominanza di scaglie all’assoluta predominanza di terre che ne accrescono l’instabilità (Fig. 2.15).

 

Fig. 2.12. Vista della loc. Sponda poco a monte di Torano: confronto tra i primi del ’900 (A) e oggi (B). Il versante di Crestola, prima ricolmo di detriti, è oggi denudato e mostra evidenti segni di abrasione del substrato roccioso derivanti dal rotolamento dei detriti. Anche l’area della cava La Madonna era completamente coperta da un ravaneto.

 

Fig. 2.13. Vista (da monte) della valle di Ravaccione immediatamente sottostante alla stazione della ex ferrovia marmifera: confronto tra i primi anni del ’900 (A)  e oggi (B). La foto B riprende solo una parte della foto A (quella a destra della linea gialla tratteggiata). Le frecce gialle (poste agli gli estremi della cresta con guglie aguzze) e quella bianca (che indica un minuscolo saggio di cava) forniscono un riferimento spaziale per il confronto. Con ogni probabilità, il ravaneto Collestretto (A), corrispondente al contorno bianco tratteggiato in B, derivava dall’uso di esplosivo nella vecchia cava Collestretto ed è stato poi rimosso per coltivare la nuova cava con le moderne tecniche di taglio. Si noti anche che i vecchi ravaneti Battaglino e Collestretto (in A) erano costituiti da grosse scaglie: non sono visibili terre.

 

Fig. 2.14. Vista del bacino di Ravaccione da Poggio Dovizia: confronto tra i primi anni del ’900 (A) e oggi (B). Si noti che i vecchi ravaneti (Lorano e Battaglino) erano molto più rigonfi di oggi e costituiti da sole scaglie (non sono visibili terre).

 

Fig. 2.15. A: vista panoramica dall’alto (Google Earth) delle cave di Gioia (in alto) e del loro ravaneto di terre (frecce). B: lo stesso: foto in vista frontale. C e D: ravaneti Polvaccio e La Madonna. Il confronto con le Fig. 2.12, 2.13 e 2.14 mostra in maniera lampante come dai vecchi ravaneti di scaglie si sia passati ai “moderni” ravaneti costituiti in netta predominanza da terre.

 
L’immagine-tipo di questa imponente trasformazione dei ravaneti è mostrata efficacemente nella Fig. 2.16.
 

Fig. 2.16. Immagine-tipo della radicale trasformazione del ravaneto della cava La Facciata dai primi del ’900 (A) aoggi (B). Lo spessore si è fortemente ridotto e la composizione è passata da scaglie molto grossolane all’assoluta predominanza di terre, con riduzione della permeabilità e incremento dell’instabilità. Nota: dato il tempo trascorso, le trasformazioni avvenute e il diverso punto di ripresa (in B situato più in basso e a destra), non è certo che si tratti della stessa cava; tuttavia l’insieme dei tratti morfologici (contrassegnati dalle linee punteggiate di diverso colore) induce a ritenere che entrambe le foto riprendano la cava La Facciata, nel bacino di Torano.

 
I risultati della riduzione dei ravaneti (in estensione e in spessore) e della modifica della loro composizione (da scaglie a terre) sono la riduzione dell’assorbimento di acque meteoriche e del rallentamento del loro deflusso superficiale, con conseguente incremento dei picchi di piena e della propensione a produrre colate detritiche.

In poche parole, nella più beata indifferenza dei nostri amministratori, ci siamo ficcati in un bel guaio: i ravaneti attuali stanno diventando sempre più pericolosi (dai vecchi ravaneti spugna siamo passati agli odierni ravaneti killer), ma la loro rimozione aumenterebbe ulteriormente il rischio alluvionale. Come uscirne? La risposta sta proprio nella realizzazione dei ravaneti spugna.
 
 

2.8      Rallentare i deflussi con i ravaneti spugna: la soluzione concreta

 

Sintetizzando le problematiche sviscerate nei paragrafi precedenti, con le piogge di moderata intensità i ravaneti –assorbendo acqua e rallentandone il deflusso– riducono i picchi di piena: un ruolo positivo ma poco utile poiché in tali condizioni il rischio d’esondazione non sussiste. Con le piogge eccezionali, invece, proprio quando l’assorbimento di acqua e il rallentamento del deflusso sarebbero essenziali per ridurre veramente il rischio, le terre contenute nei ravaneti fluidificano generando colate detritiche che colmano gli alvei provocandone l’esondazione.

La soluzione logica è lampante e comprensibile da tutti: bisogna rimuovere le terre e la marmettola dai ravaneti (per eliminarne l’instabilità) e mantenere le scaglie (per mantenerne le funzioni di spugna e di rallentamento dei deflussi).

La base scientifica di questa proposta è sintetizzata nella mappa concettuale della Fig. 2.17 che mostra i danni (riquadri rossi) derivanti dagli attuali ravaneti e i vantaggi (riquadri verdi) ottenibili ricon­vertendoli in ravaneti-spugna. La mappa merita di essere letta con attenzione per com­prendere appieno le catene dei meccanismi di causa-effetto coinvolti.
 

Fig. 2.17. La mappa concettuale mostra i danni (riquadri rossi) derivanti dagli attuali ravaneti e i vantaggi (riquadri verdi) ottenibili ricon­vertendoli in ravaneti-spugna. Fonte: Sansoni, 2018. Il bacino estrattivo di Torano. Spunti per una pianificazione integrata. Legambiente Carrara

 
Tenendo conto di questo quadro concettuale si possono meglio comprendere le ragioni del rilevante aggravamento del rischio alluvionale indotto dai drastici cambiamenti subiti dai ravaneti nell’ultimo secolo. Allo stesso tempo diventa ancor più chiaro perché la loro conversione in ravaneti spugna li trasformerebbe da fattore di rischio in fattore di sicurezza (Fig. 2.18).
 

RAVANETI ANTICHI

Tessitura grossolana; permeabilità molto elevata, coefficiente di ritenzione modesto (per pori ampi), ma ritenzione media, grazie a spessori enormi. Deflusso superficiale assente (le acque scorrono sepolte nei detriti). Piccoli alvei montani sepolti: forte rallentamento del deflusso (per attrito elevato e percorso molto tortuoso tra gli interstizi dei detriti): elevata riduzione del rischio alluvionale a valle.

RAVANETI RECENTI

Tessitura media con supporto di matrice fine (terre). Coefficiente di ritenzione elevatissimo, ma la permeabilità tende ad azzerarsi per costipazione da imbibizione. Infiltrazione medio-bassa e deflusso superficiale elevato e veloce. Dilavamento terre e loro deposito in alvei con piogge normali (aumento graduale rischio alluvionale); colate detritiche con piogge eccezionali (aumento improvviso rischio alluvionale).

TERRE (tendenza attuale)

Tessitura fine. Porosità molto elevata, ma permeabilità assente dopo imbibizione. Con piogge eccezionali l’infiltrazione si azzera e tutto il deflusso diviene superficiale e molto rapido. Grande propensione a dilavamento e a colate di fanghi che riducono capacità alvei (gradualmente o improvvisamente). Accelerazione deflussi e rischio alluvionale massimo. Sorgenti e fiumi molto torbidi.

RAVANETI-SPUGNA

Ottimizzazione della tessitura (scaglie, pietrisco, sabbia grossolana). Spessori notevoli, ma non enormi. Permeabilità elevata; deflussi superficiali molto modesti e molto rallentati. Max stabilità (per bastioni di contenimento); niente apporto di sedimenti agli alvei. Max riduzione del rischio alluvionale (localmente e a valle). Fiumi e sorgenti puliti; massimo rimpinguamento dell’acquifero.

Rischio alluv.: medio Rischio: elevato Rischio: elevatissimo Rischio: minimo
Fig. 2.18. Illustrazione schematica delle caratteristiche fisiche e del comportamento idrologico dei vari tipi di ravaneti. L’ultima riga mostra la forma dei picchi di piena, cioè l’andamento della portata (sulle ordinate) nel tempo (sulle ascisse). Fonte: disegni di G. Sansoni, 2020.

 
Per realizzare i ravaneti spugna occorre smantellare i ravaneti recenti fino a raggiungere il substrato roccioso, eliminare tutti i materiali fini e ricostruire i ravaneti spugna con sole scaglie pulite. Dal punto di vista granulometrico, è opportuno utilizzare una miscela di scaglie da grossolane (decimetriche) a minute, fino a pietrisco e sabbia molto grossolana.

I ravaneti spugna dovranno essere stabilizzati per assicurarne la stabilità anche nei confronti di precipitazioni eccezionali e di scosse sismiche.

La ricostruzione dei ravaneti ripuliti dovrà essere anche l’occasione per proporre una nuova immagine dello “spirito del luogo” (genius loci), che mostri i cavatori capaci non solo di opere titaniche, ma anche dotati di gusto estetico e cura del paesaggio.

Si propone pertanto la stabilizzazione dei ravaneti spugna con bastioni in scaglie (realizzati con la tecnica dei muri a secco) o in blocchi (Fig. 2.19). L’intento è il superamento dell’immagine attuale di un genius loci rozzo e devastatore trasmessa dal degrado che caratterizza i ravaneti recenti (che non migliora certo l’attrattiva turistica).
 

Fig. 2.19. A: un ravaneto antico, stabilizzato al piede con gabbioni metallici (frecce gialle); sulla destra, il deterioramento dei gabbioni ha destabilizzato il ravaneto provocando frane di detriti (frecce bianche). B e C: mirabili esempi di un secolo fa di imponenti muri a secco subverticali che sostengono grandi  spessori di scaglie, realizzati a protezione di infrastrutture (strade, vie di lizza ecc.). D e E: schizzi di due possibili modalità di realizzazione di un ravaneto spugna sostenuto da bastioni in blocchi (a gradoni orizzontali o a rampe transitabili, pedonali o camionabili). F:  simulazione grafica di E in vista frontale.

 
Lo spessore dei ravaneti spugna potrà essere inizialmente anche di pochi metri, ma l’intera struttura dovrà essere concepita in modo da consentire successivi incrementi dello spessore (anche notevoli: alcune decine di metri), in modo da ottenere nel tempo una protezione dal rischio alluvionale progressivamente crescente.
 
 

2.9      Chi non vuole i ravaneti spugna? Le cave e l’amministrazione comunale

 

Come si è visto, la realizzazione concreta dei ravaneti spugna richiede lo smantellamento dei ravaneti recenti e la loro ricostruzione, previa eliminazione dei materiali fini. Considerato che il quantitativo complessivo di materiali contenuto nei ravaneti di Carrara è di circa 80 milioni di tonnellate(16)Coli M., Appelius V., Pini G. (2000). Studi sui ravaneti dei Bacini Marmiferi Industriali del Comune di Carrara – I: ubicazione, tipologia e consistenza. GEAM, Atti del Convegno “Le cave di pietre ornamentali”, Torino, 28-29/11/2000, 59-63., la loro rimozione e ricostruzione (anche parziale, limitata cioè ai ravaneti recenti) equivale a una “grande opera” e richiederà pertanto molti anni.

Ma il prerequisito indispensabile è la volontà di realizzarli. Se l’amministrazione comunale ne avesse avuto la volontà, avrebbe potuto stabilirne il quadro normativo nel Regolamento degli agri marmiferi, nei Piani Attuativi di Bacino Estrattivo (PABE) e nelle autorizzazioni alle cave, prevedendo:

  • la proprietà pubblica di una data percentuale delle scaglie prodotte, da destinare alla sistemazione dei ravaneti finalizzata a ridurre il rischio idrogeologico;
  • la prescrizione di realizzare ogni anno una determinata quantità di lavori necessari a realizzare i ravaneti spugna (nel rispetto di un progetto pubblico);
  • le modalità di coordinamento tra le cave che utilizzano una dato ravaneto (anche solo come supporto alla via comune di arroccamento), al fine di convertirlo in ravaneto spugna;
  • le modalità di analoga conversione dei ravaneti dismessi.

In tal modo, anno dopo anno, si sarebbe ottenuta una graduale riduzione del rischio alluvionale.

Questa volontà è purtroppo mancata e le nostre osservazioni in tal senso al Regolamento e ai PABE sono state totalmente ignorate. La gravità di tale scelta politica sta nel fatto che è stata compiuta nella piena consapevolezza delle sue conseguenze (il progressivo aggravamento del rischio alluvionale per la città), considerate di importanza secondaria rispetto agli interessi degli imprenditori dell’estrazione.

 

2.10    La scelta dei PABE: alle cave mano libera, ai carraresi l’alluvione

 

Come si è già detto nella premessa, la fabbrica del rischio alluvionale opera spesso inconsapevolmente: si realizzano cioè strade, canalizzazioni o altri lavori pubblici senza rendersi conto che da tali interventi può derivare un aumento del rischio.

Nel caso dei PABE, però, l’attenuante dell’ignoranza non può essere concessa. I PABE, infatti, mostrano piena consapevolezza delle potenzialità dei ravaneti di ridurre il rischio idrogeologico –attraverso l’immagazzinamento idrico (storage), il rallentamento dei deflussi e il minor apporto detritico agli alvei sottostanti– e della necessità di tutelare le aree di immagazzinamento idrico.

Tuttavia, pur dichiarando l’obiettivo di tutelare il territorio dal rischio idraulico e geomorfologico (NTA, art. 5, comma 1, lett. d) si accontentano di tutelare i vecchi ravaneti e di limitare l’aspor­tazione delle scaglie dai ravaneti recenti (che sono ben il 77%). Si guardano bene dal prescrivere (come sarebbe doveroso per un Piano dei bacini estrattivi!) il loro risanamento dalle terre e il potenziamento dell’effetto protettivo (riservando a tal fine una frazione delle scaglie annualmente prodotte).

In poche parole, i PABE respingono di fatto le esplicite raccomandazioni dello studio idraulico dell’università di Genova di rimuovere le terre dai ravaneti (relazione Seminara, 2016) e accettano passivamente il mantenimento dell’attuale (elevato!) livello di rischio di frana e conseguente esondazione. Di fatto, dunque, i PABE pianificano consapevolmente le future alluvioni: una responsabilità gravissima, che è stata nascosta ai carraresi dietro ipocrite dichiarazioni!

Analoga scelta (priorità data gli interessi delle cave rispetto ai beni e alla stessa vita dei carraresi), emerge in maniera ancor più evidente per quanto riguarda le Aree di immagazzinamento idrico (si veda il par. 3.4).
 

3.   IDRAULICA PRATICA

 

Assodato che il rallentamento subito dalle acque piovane infiltratesi nel suolo (o nei ravaneti) svolge un ruolo rilevante nella riduzione del rischio alluvionale, è logico chiedersi se non sia possibile rallentare il deflusso anche nella fase successiva, quando cioè le acque emergono dal suolo e scorrono in superficie, a partire dai piccoli impluvi e dai ruscelli montani.

La risposta sta già nell’esperimento mentale iperbolico della Fig. 2.7 (se riesci a “mettere il rubinetto ai deflussi”, puoi tranquillamente attendere la piena sulla sdraia): ciò che conta, infatti, è il rallentamento del deflusso, indipendentemente dal mezzo in cui esso si verifica (all’interno del suolo o sulla sua superficie).

Merita però approfondire il concetto ricorrendo ai principi fondamentali dell’idraulica che, scendendo più in dettaglio, permettono calcoli quantitativi delle portate e dei livelli idrici raggiunti nei corsi d’acqua, secondo la loro configurazione. I principi fondamentali sono comunque semplici e intuitivi: possiamo quindi comprenderli anche senza ricorrere alle formule complicate, che lasciamo agli ingegneri idraulici.

In definitiva, poiché la nostra stella polare per ridurre il rischio alluvionale è la riduzione delle portate di piena in uscita dal bacino montano, dobbiamo semplicemente chiederci quali accorgimenti sono in grado di ridurre la velocità della corrente. I principali sono l’allargamento dell’alveo e l’aumento della sua scabrezza e sinuosità, che andiamo a esaminare.
 
 

3.1      Rallentare allargando l’alveo (restituire spazio ai corsi d’acqua)

 

È intuitivo comprendere che in un alveo molto largo l’acqua scorrerà lentamente e con un basso battente idraulico (cioè in strato sottile: Fig. 3.1A) mentre, se restringiamo l’alveo, il battente idraulico si eleverà e la corrente scorrerà molto più velocemente (Fig. 3.1B).

Del resto è un’osservazione che possiamo compiere facilmente anche passeggiando lungo una strada durante la pioggia: sulla carreggiata scorre lentamente un sottile velo d’acqua, mentre nella canalina stradale adiacente (che possiamo paragonare a uno stretto alveo) l’acqua scorre molto più veloce e turbolenta (Fig. 3.1C).
 

Fig. 3.1. Quanto più l’alveo è ristretto, tanto più aumenta la velocità della corrente. A: dopo una precipitazione intensa il livello idrico in alveo inizia a elevarsi e la velocità aumenta in maniera esponenziale; tuttavia, quando il fiume esonda nella sua piana inondabile, le acque si espandono su una sezione molto larga e l’incremento di velocità diventa bruscamente molto più contenuto (linea rossa nel grafico). B: se l’espansione della piena nella piana inondabile viene impedita costruendo argini, il livello idrico aumenterà e la velocità della corrente continuerà a crescere esponenzialmente. C: nella stretta canalina stradale le acque piovane scorrono con grande velocità e turbolenza (freccia lunga), mentre sulla carreggiata scorrono molto più lentamente (freccia corta): clicca qui per il video (20 sec.). Fonte di A e B: Sansoni, 2007. Efficienza di esondazione. Lezione al Corso sull’Indice di Funzionalità Fluviale, Trento.

 
La lezione da apprendere è che ogni volta che si restringe un alveo, canalizzandolo, si accelera la corrente accentuando i picchi di piena: si tratta di una pratica talmente diffusa che è tra le prime cause di incremento del rischio alluvionale a valle. La difesa da tale rischio non può dunque prescindere dal restituire agli alvei lo spazio loro sottratto in passato.

È doveroso chiedersi se la canalizzazione dei corsi d’acqua nel nostro territorio montano rappresenti o meno un problema rilevante. La risposta è purtroppo categorica: nel nostro bacino montano (ma anche in collina e in pianura) tutti i corsi d’acqua sono stati canalizzati, non ne esiste nemmeno uno che abbia mantenuto il suo spazio originario e un minimo di naturalità; molti, addirittura sono stati sepolti da strade (Fig. 3.2).
 

Fig. 3.2. Alvei sepolti da strade nei bacini di Colonnata (A), Miseglia (B) e Torano (C). A: via Colonnata, loc. Canalie. Lo schizzo sovrapposto alla foto rappresenta l’alveo originario, oggi in gran parte occupato dalla sede stradale. Nell’alveo attuale, confinato in una sede ristretta e arginata, le piene scorrono dunque con maggior velocità (per la minor larghezza e la maggior profondità); per la bassa scabrezza dell’asfalto, anche le acque che esondano sulla strada scorrono rapidamente verso valle. B: la strada Ponti di Vara-Fantiscritti occupa l’intero fondovalle: non vi è traccia dell’alveo del torrente che doveva scorrervi. Sui versanti sono ben visibili i detriti di ravaneto (frecce) che hanno sepolto il fondovalle. C: via Piastra-Ravaccione. L’alveo originario che scorreva nel fondovalle (i cui versanti sono indicati dalle linee tratteggiate) è stato completamente sepolto dai detriti di cava: la strada è stata costruita sopra di essi.

 
È sorprendente che questa situazione generalizzata, pur rappresentando un fattore rilevante di incremento del rischio alluvionale, non riceva alcuna attenzione. Eppure questa osservazione aprirebbe la possibilità strategica di una consistente riduzione del rischio alluvionale ricorrendo a un vasto piano di delocalizzazione delle strade di fondovalle che restituisca quest’ultimo ai corsi d’acqua.
  
 

3.2      Rallentare la corrente mediante attrito (incrementare la scabrezza dell’alveo)

 

È esperienza di tutti che l’acqua scivola velocemente su un piano inclinato liscio, mentre la sua velocità si riduce (per attrito) quanto più elevata è la scabrezza del piano inclinato. 

In un corso d’acqua naturale vi sono molti elementi che, incrementando la scabrezza e l’attrito, funzionano da dissipatori dell’energia e, pertanto, da rallentatori della corrente: basti pensare alla dissipazione d’energia dell’acqua quando essa cade nelle cascatelle, scorre sul letto ciottoloso o contro le ruvide sponde, urta la vegetazione riparia, forma vortici turbolenti nelle curve, trasporta a valle i materiali erosi dal fondo (Fig. 3.3).

La superficie irregolare dell’alveo e della piana inondabile, peraltro, fanno sì che, man mano che il livello della piena sale, entrino in gioco nuovi elementi dissipatori d’energia (avvallamenti e rilievi del terreno, fasce di vegetazione perifluviale ecc.).
 

Fig. 3.3. Un corso d’acqua naturale è dotato di vari meccanismi di dissipazione dell’energia che, nel loro insieme, moderano la velocità della corrente. Fonte: Kondolf, 1997. Hungry Water: Effects of Dams and Gravel Mining on River Channels. Environmental Management, 21 (4): 533–551.

 
La lezione da apprendere è che le canalizzazioni in cemento, appositamente realizzate per accelerare e allontanare il più rapidamente possibile le acque, sono uno degli interventi più dannosi poiché incrementano il rischio alluvionale a valle. Sono anche uno degli interventi più diffusi, il che dimostra che la lezione non è stata appresa per nulla (Fig. 3.4).
 

Fig. 3.4. A: simulazione grafica ipotetica di come doveva essere la valle di Piastra (a monte di Torano). Il fondovalle doveva essere interamente occupato dall’alveo del torrente: largo, sinuoso e dotato di scabrezza. Il conseguente rallentamento della corrente contribuiva ad aumentare la sicurezza idraulica di Carrara, riducendo i picchi di piena. B: situazione attuale del fondovalle, occupato in gran parte dalla strada per le cave di Ravaccione, con l’alveo ristretto in un canale in cemento liscio e rettificato; l’area (disabitata) viene oggi inondata più raramente, ma trasferendo un rischio più accentuato su Carrara. Gli ingegneri che hanno realizzato l’intervento ne conoscevano certamente le conseguenze negative per la città ma, evidentemente, hanno assecondato la priorità politica della viabilità per le cave, a tutto danno dei cittadini. La soluzione corretta sarebbe stata quella di rispettare l’alveo e di costruire la strada a una quota più elevata: se ieri non l’abbiamo fatto, oggi è ora di rimediare.

  
 

3.3      Rallentare la corrente riducendo la pendenza (restituire sinuosità agli alvei)

 

Un altro principio elementare di idraulica, del tutto intuitivo, è che la velocità della corrente è tanto più elevata quanto maggiore è la pendenza: per rallentare la corrente, pertanto, basta ridurre la pendenza dell’alveo.

Meno ovvio è come ottenere questo risultato. L’ingegnere tradizionale proporrà probabilmente di costruire una serie di briglie, riducendo il corso d’acqua a una scalinata: così su ogni scalino la pendenza sarà prossima a zero e ad ogni salto verrà dissipata una notevole quantità di energia (Fig. 3.5).
 

Fig. 3.5. Le briglie sono interventi di riduzione delle pendenza e di dissipazione dell’energia della corrente. Hanno elevati costi di costruzione e di manutenzione e inducono una pesante trasformazione degli habitat acquatici. A: Can. di Sponda (sopra Torano). B e C: briglie, rispettivamente in ambito medio montano e alto montano. D: intervento di artificializzazione fluviale estrema: il rio Mercari (TN) è stato radicalmente ristretto tra elevati muri arginali e la conseguente accelerazione della corrente è stata mitigata con una successione di briglie. Fonte: B e C dalla rivista “Il pescatore trentino”.

 
Non è però questo il tipo di interventi che intendiamo proporre (visto il loro impatto ecologico), tutt’altro! Può sembrare impossibile ridurre la pendenza di un corso d’acqua visto che essa è condizionata dalla pendenza del fondovalle. Va tuttavia considerato che gran parte dei corsi d’acqua (compresi il Carrione e i suoi affluenti) hanno subito nei secoli pesanti interventi di rettifica (accompagnati da restringimento e arginatura).

Ebbene, basta riflettere un po’ per comprendere che le rettifiche inducono inevitabilmente un aumento della pendenza: infatti, se in un corso d’acqua sinuoso si uniscono due punti mediante rettifica, la loro quota resta (ovviamente) invariata ma la lunghezza del percorso si riduce e, di conseguenza, la pendenza del tratto aumenta (Fig. 3.6).
 

Fig. 3.6. Schema di una rettifica e delle sue conseguenze, visto in pianta (sopra) e nel profilo longitudinale (sotto). Quando i punti A e B vengono collegati da un alveo artificiale, la lunghezza del tratto rettificato si riduce sensibilmente, mentre la loro quota resta invariata: ne risulta pertanto un aumento della pendenza e, di conseguenza, un’accelerazione della corrente che accresce il rischio idraulico a valle. Un’altra conseguenza è l’aumento della capacità di erosione e di trasporto solido. In definitiva, il tratto a maggior pendenza induce un’erosione retrograda (incidendo l’alveo a monte della rettifica); i sedimenti presi in carico dalla corrente si depositano a valle del tratto rettificato poiché, avendo una minor pendenza, riduce la velocità e l’energia della corrente. A lungo termine, l’erosione a monte del tratto rettificato e la sedimentazione a valle di esso inducono la ricostituzione di un nuovo profilo d’equilibrio, a una quota più bassa di quella originaria. Nel frattempo, però, l’erosione nel tratto a monte può scalzare le fondamenta dei ponti e di altri manufatti (destabilizzandoli), mentre la sedimentazione nel tratto a valle riduce la capacità idraulica favorendo le esondazioni. Fonte: Lachat, 1991. Le cours d’eau. Conservation, entretien et aménagement. Conseil d’Europe, Strasbourg (ritoccata).

 
Se ne trae dunque la duplice conclusione che parte dell’aggravamento del rischio alluvionale al quale siamo esposti deriva dalla rettifica del corsi d’acqua montani(17)Anche l’intera asta principale del Carrione da Carrara al mare è stata fortemente rettificata e ristretta nei secoli. effettuata in passato e che, pertanto, dobbiamo rimediare restituendo agli alvei l’intero spazio dei fondivalle e rimuovendo le canalizzazioni che impediscono le divagazioni dell’alveo (Fig. 3.7A).

È tuttavia doveroso chiedersi se ciò porterebbe davvero a una sensibile riduzione della velocità della corrente (e, quindi, del rischio alluvionale) o se tale vantaggio sarebbe modesto.

Per rispondere a questa domanda, l’idraulica, con le sue formule di calcolo, è una disciplina indispensabile, come illustrato in maniera eloquente negli esempi schematici della Fig. 3.7B:

  • il corso d’acqua canalizzato, stretto, liscio e rettificato ha una velocità della corrente molto elevata (13,3 m/s);
  • il solo allargamento dell’alveo produce quasi un dimezzamento della velocità (che scende a 7 m/s);
  • l’aumento della scabrezza (eliminando il rivestimento in cemento e ripristinando la naturalità del fondo e delle sponde) dimezza ulteriormente la velocità, portandola a 3 m/s;
  • la riduzione della pendenza conseguente alla restituzione della sinuosità all’alveo, infine, riduce ulteriormente la velocità a 2 m/s.
Fig. 3.7. A: schema della restituzione della sinuosità ad un canale rettificato: raddoppiando in tal modo la lunghezza del percorso si ottiene un dimezzamento della pendenza. B: dall’alto verso il basso si passa da un canale in cemento (stretto, liscio e rettilineo) ad un alveo naturale largo, sinuoso e dotato di scabrezza (data dai ciottoli su fondo e dalla vegetazione riparia). I calcoli mostrano che la velocità si riduce di 6,8 volte (da 13,3 a 2,1 m/s), riducendo grandemente il rischio alluvionale a valle. Fonte: figure e calcoli di Legambiente Carrara.

 
In sintesi, passando da un canale cementificato (stretto e liscio) a un corso d’acqua naturale (largo, sinuoso e dotato di scabrezza), si ottiene una riduzione della velocità di 6-7 volte (da 13,3 a 2,1 m/s), quindi una notevole riduzione del rischio alluvionale: un obiettivo che, sebbene meritevole di un grande impegno, a Carrara non è mai stato nemmeno preso in considerazione.
  
 

3.4      Rallentare i deflussi trattenendo le acque in piccoli e grandi invasi

 

Abbiamo già visto nel par. 2.1 (Idrologia) che gli avvallamenti del suolo funzionano da minuscoli bacini di ritenzione che intrappolano le acque meteoriche in maniera duratura (si riveda la Fig. 2.2A), sottraendole così allo scorrimento superficiale e alla formazione del picco di piena.

È tuttavia evidente che la funzione di ritenzione può essere svolta anche sulle acque che scorrono già in superficie negli alvei montani, qualora sia possibile trattenerne quantità significative. Il pensiero va immediatamente alle dighe, a monte delle quali si formano grandi invasi, ma non è certo questo che proponiamo.

D’altronde lo stesso masterplan del Carrione prevede la realizzazione di alcuni invasi temporanei (inizialmente ne sono stati considerati una ventina, scesi poi a 4-5 scartando quelli più piccoli e meno efficienti): sbarramenti con una larga apertura sul fondo, tarata in modo da far passare la portata trentennale (quindi da non disturbare minimamente il transito delle portate ordinarie) e di riempirsi gradualmente con la portata eccedente la Q30 (Fig. 3.8).
 

Fig. 3.8. Schema del funzionamento degli sbarramenti a bocca tarata per la realizzazione di invasi temporanei finalizzati a laminare i picchi di piena. 1: la luce sul fondo dello sbarramento è talmente larga da lasciare passare indisturbate le portate ordinarie. 2 e 3: durante le piene, dalla bocca di fondo transita la Q30, mentre l’eccedenza inizia ad accumularsi nell’invaso, il cui livello inizia a salire e così continua fino al colmo della piena, dopodiché (4 e 5) torna a scendere fino al ritorno alle condizioni normali. 6: se la luce di fondo dello sbarramento è tarata per far transitare la Q30, il picco di piena in arrivo viene “decapitato” e la portata eccedente (in bianco) viene trattenuta nell’invaso. L’invaso è temporaneo: nel giro di qualche ora si riempie e si svuota. Fonte: Sansoni, 2020. Video Cave, ravaneti e rischio alluvionale. Giornata di studio “Ricadute del sistema estrattivo su territorio e comunità”. Athamanta, Friday for future, Casa Rossa Occupata, Legambiente Carrara, Magliette Bianche MS, TAM CAI Massa.

 
Merita ricordare che l’insieme degli interventi previsti dal masterplan da Carrara al mare è dimensionato per fronteggiare la Q30: la sua efficacia richiede dunque che le portate superiori alla Q30 siano trattenute nel bacino montano. Questo concetto chiave spiega l’assoluta necessità di adottare ogni tipo di accorgimenti in grado di trattenere le acque al monte e di rallentarne il deflusso: senza di essi, infatti, l’alluvione di Carrara sarebbe inevitabile.

La laminazione della piena esercitata dagli invasi temporanei a bocca tarata è più efficiente di quella espletata da invasi senza luce di fondo. Questi ultimi, infatti, non avendo uno scarico, iniziano a riempirsi anche con portate modeste cosicché può capitare che, quando arriva il picco di piena, siano già riempiti fino al colmo e non riescano a decapitarlo.

Ciononostante, anche gli invasi senza scarico di fondo (come lo sono di fatto le cave a fossa o a pozzo dismesse) forniscono il loro contributo alla riduzione del rischio alluvionale (rallentando i deflussi e trattenendone una parte): è pertanto importante evitarne il riempimento utilizzandoli come discarica dei detriti di cava.

Anche il PABE (Piano Attuativo di Bacino Estrattivo) di Carrara, d’altronde, non solo dichiara l’obiettivo di tutelare il territorio dal rischio idraulico (art. 5, comma 1, lett. d), ma mostra piena consapevolezza dell’importanza di sfruttare le cavità esistenti per mitigare il rischio alluvionale trattenendo a monte volumi di acque piovane. Nell’art. 30, infatti, individua le Aree di immagazzinamento idrico (ad es. cave a fossa) e stabilisce che il progetto di risistemazione finale di tali cave non possa prevederne il riempimento, ma debba rendere la depressione un’area stabile di immagazzinamento e rilascio controllato delle acque.

Pur condividendo pienamente tale misura, la sua assoluta inadeguatezza rispetto alle reali possibilità e necessità ne evidenzia il carattere demagogico e rinunciatario. Infatti, applicandosi alle sole cave attive, non solo rinvia il conseguimento dei suoi effetti benefici al termine dell’attività estrattiva (tra alcuni decenni) ma, per le numerose cave dismesse, vi rinuncia del tutto in partenza.

In altre parole, i PABE, pur consapevoli dell’incremento del rischio alluvionale derivato dal riempimento delle cave a fossa dismesse (utilizzate come discarica), rinunciano a porvi rimedio. La piena consapevolezza della scelta è un’aggra­vante delle responsabilità.

Passando poi dalle enunciazioni del PABE alla cartografia che individua con precisione le aree di immagazzinamento idrico da salvaguardare, troviamo un’altra aggravante che conferma la piena consapevolezza di agire come una fabbrica del rischio alluvionale non per ignoranza, ma per scelta politica (cioè per non creare fastidiosi obblighi alle cave).

Per fare un solo esempio, esaminando la cartografia delle aree di immagazzinamento idrico si resta esterrefatti: nel basso bacino estrattivo di Colonnata, ne è stata individuata solo una, veramente minuscola: la vasca di sedimentazione all’imbocco della via d’arroccamento di Gioia (della capacità di circa 300 m3).

Non sono state incluse tra le aree di immagazzinamento idrico presenti negli immediati dintorni le cave dismesse Trugiano (circa 160.000 m3, oggi colmata e in riempimento addirittura in rilevato), Calagio Bassa (circa 370.000 m3, ormai in buona parte colmata), Scalocchiella (circa 40.000 m3, oggi sepolta da detriti), la cava attiva Cancelli di Gioia (circa 40.000 m3) e il fondovalle del Carrione, già colmato a suo tempo (per uno spessore di 30-40 m e un volume stimabile in 150.000-200.000 m3) per realizzare i due piazzali Olmo (Fig. 3.9 e 3.10).
 

Fig. 3.9. Il PABE, nell’area del bacino di Colonnata qui illustrata, prevede come Area di immagazzinamento idrico la sola minuscola vasca di sedimentazione (circa 300 m3) ai piedi della via d’arroccamento di Gioia (in giallo). Non prende invece in considerazione le altre cavità, oggi parzialmente o completamente riempite (in blu) il cui volume complessivo ammonta a circa 700-800.000 m3. Si tratta di una grave responsabilità e di un insulto all’intelligenza dei cittadini.

 

Fig. 3.10. A: Cava Trugiano ripresa dall’alto (2010): vi si accedeva attraverso un suggestivo passaggio tra due alte pareti di marmo (freccia gialla); il senso delle proporzioni è dato dai due escavatori nel piazzale (cerchio rosso). B: la stessa nel 2017, ridotta a discarica, a riempimento quasi completato. C: 2020, vista dal piano: riempita la cava a fossa, si procede oggi a proseguire la discarica elevandola in rilevato per lo spessore indicato dalla freccia.

 
In poche parole, con i PABE la montagna ha partorito il topolino. Gli altisonanti propositi di pianificare la gestione dei bacini estrattivi per conseguire la riduzione del rischio alluvionale (sfruttando le cavità esistenti per immagazzinare le acque piovane) si sono ridotti a salvaguardare a tal fine una minuscola vasca trascurando il recupero di altre cavità aventi una capacità oltre 2.000 volte superiore! Una scelta equivalente a dichiarare di voler svuotare il mare adottando poi, come strumento, un bicchiere. Un vero insulto all’intelligenza dei cittadini.
  
 

3.5      Perché, allora, si accelerano i deflussi? (Interesse particolare vs interesse generale)

 

Considerato che gli ingegneri che progettano gli interventi idraulici e gli amministratori che li commissionano non sono certo stupidi né autolesionisti né, tantomeno, perfidi, è doveroso chiedersi perché continuino a realizzare interventi che, accelerando il deflusso delle acque, aggravano il rischio alluvionale.

La risposta sta nell’ottica settoriale e locale con cui opera l’amministrazione pubblica. A titolo d’esempio, l’ufficio strade si occupa unicamente di realizzare strade sicure, possibilmente a costi contenuti di costruzione e manutenzione. Così, nel bacino montano, sceglierà di costruirle nel fondovalle: la minor pendenza e il maggior spazio a disposizione, infatti, consentiranno una maggior larghezza della carreggiata, un transito più confortevole e minori costi.

A tal fine, naturalmente, dovrà confinare il corso d’acqua di fondovalle in un alveo più ristretto (anche per ottenere una strada col minor numero possibile di curve) e, dovendo evitare che la corrente eroda le sponde destabilizzando la strada adiacente, nonché le esondazioni che comprometterebbero la sicurezza del transito, risolverà il problema canalizzando l’alveo.

Sa bene che nel canale rettificato con fondo e sponde rivestite in cemento, la corrente scorrerà molto più velocemente, abbassando il pelo libero dell’acqua, ma questo è esattamente l’effetto desiderato. Dal suo punto di vista, ha fatto un lavoro egregio.

D’altronde, anche se, per scrupolo di coscienza, dovessero sorgergli interrogativi sui possibili effetti controproducenti, si rassicurerebbe subito: con tutte le canalizzazioni che vengono fatte per ridurre le esondazioni dei corsi d’acqua, bonificare paludi e stagni, eliminare ristagni idrici, drenare i terreni agricoli, smaltire rapidamente le acque piovane dalla città ecc., non sarà certo la mia strada che provocherà l’alluvione di Carrara.

Ed ha ragione: la colpa non è sua, né di ciascuno degli altri interventi. Tuttavia anche il suo intervento apporta il suo contributo al rischio che, unito a quello degli altri interventi, aumenta progressivamente fino a provocare l’alluvione. Ma, come si sa, tutti colpevoli significa nessun colpevole: le responsabilità del singolo (persona o ufficio) diventano così responsabilità indefinite dell’inte­ra società, di cui nessuno sarà chiamato a rispondere.

Va poi considerato che la distanza spaziale (tra la strada montana e la città alluvionata) e la distanza temporale tra i due eventi (magari di decenni) sono talmente grandi che diventa praticamente impossibile attribuire responsabilità dirette.

Proprio per tali motivi con la L. 183/89 sono state istituite le Autorità di bacino (oggi Autorità di distretto) che, dovendo pianificare la sicurezza idraulica di un’area vasta (l’intero bacino idrografico), sono particolarmente attente a evitare interventi che, per ottenere un dato beneficio locale, scarichino il rischio idraulico su altre aree.

La loro istituzione ha rappresentato un grande cambiamento culturale ma, purtroppo, non riguarda l’intero ciclo dell’acqua: in particolare, non riguarda i sistemi di approvvigionamento idrico (civile, irriguo, industriale), i sistemi di raccolta e depurazione delle acque usate, i sistemi irrigui, le fognature urbane (acque chiare, nere, miste) e altri elementi di grande importanza sul ciclo dell’acqua (ad es. forestazione, pratiche agricole ecc.).

In conclusione, per uscire da questo circolo vizioso in cui tutti (singoli, aziende, enti), pur adottando le migliori pratiche nel proprio specifico settore, contribuiscono ad aggravare il rischio alluvionale (nonché siccità, desertificazione, isole di calore urbano ecc.) c’è assoluto bisogno di una nuova cultura dell’acqua che abbracci tutti i settori e tutti i livelli (da quello locale a quello planetario).

Nel prossimo capitolo esporremo sinteticamente le idee di fondo del nuovo paradigma dell’acqua con particolare riguardo ai suoi aspetti globali (compresi il riscaldamento planetario e l’intensificazione degli eventi meteorologici estremi), mentre nel capitolo 5 trarremo frutto da questa nuova visione per indicare alcuni accorgimenti adottabili localmente per ridurre il rischio alluvionale migliorando nel contempo l’intero pianeta, senza provocare tragici “danni collaterali”.
 
 
 

 

4.   IL NUOVO PARADIGMA DELL’ACQUA

 

Nei capitoli 3 e 4 si è visto come la conoscenza dei fondamenti dell’idrologia e dell’idraulica fornisca indicazioni della massima importanza per evitare pratiche che aggravano il rischio alluvionale e, viceversa, per adottare misure capaci di ridurlo in maniera rilevante.

Ma l’idrologia e l’idraulica riguardano solo due fasi del ciclo dell’acqua: la trasformazione delle precipitazioni nei deflussi (superficiale e sotterraneo) e lo scorrimento delle acque negli alvei.

In questo capitolo vedremo come, allargando lo sguardo all’intero ciclo dell’acqua, sia possibile compiere addirittura una vera e propria rivoluzione scientifica. Ne scaturisce infatti un nuovo paradigma dell’acqua(18)Per la stesura di questo capitolo si è attinto largamente dal seguente volume, di cui si consiglia vivamente la lettura. Kravčík M., Pokorný J., Kohutiar J., Kováč M., Tóth E., 2021. L’acqua per il recupero del clima. Un nuovo paradigma dell’acqua. Biologia Ambientale, 35 (2021, suppl. n. 1). DOI 10.30463/ao211.008 i cui modelli esplicativi sono di portata rivoluzionaria sia per la gestione delle acque e del territorio a livello locale, sia per affrontare in maniera più efficace sfide di carattere planetario (quali i cambiamenti climatici globali).

Dopo i primi paragrafi, dedicati a richiamare i principi fondamentali dell’influenza climatica del ciclo dell’acqua, metteremo in evidenza come la “moderna” gestione delle acque sul territorio produca una maggior frequenza e intensità degli eventi meteorologici estremi e, di conseguenza, un incremento del rischio di inondazioni e di siccità. Da queste premesse trarremo indicazioni pratiche per misure di gestione sostenibile delle acque volte a contrastare tali fenomeni.

Vedremo infine come, con l’adozione su larga scala di tali misure, sia addirittura possibile mitigare il riscaldamento globale previsto dagli attuali modelli climatici, focalizzati esclusivamente sull’incremento atmosferica di CO2.
  
 

4.1      Il grande e il piccolo ciclo dell’acqua

 

Come abbiamo imparato fin dalle scuole elementari, il grande ciclo dell’acqua inizia con la sua evaporazione dai mari, un processo che assorbe una grande quantità di energia termica(19)Il calore specifico dell’acqua, cioè la quantità di energia assorbita da 1 grammo di acqua durante l’aumento di temperatura di 1 °C, è di 1 caloria (pari a 4,18 Joule). Si tratta di un valore superiore a quello di tutte le sostanze conosciute: per esempio il calore specifico del ferro è 0,107 cal/(g·°C), per il rame è 0,092, per l’alluminio 0,215, per l’aria 0,240. Quindi, riscaldandosi di 1 °C, l’acqua assorbe una quantità di calore circa 10 volte superiore a quella assorbita dalla stessa quantità di ferro.
La capacità termica è il prodotto tra calore specifico e massa.
Il calore latente specifico dell’acqua (2,2 Joule/g) è la quantità di energia solare che viene assorbita per far evaporare 1 g di acqua senza aumentarne la temperatura: questa stessa quantità di calore viene poi rilasciata durante la condensazione del vapor acqueo in un luogo più freddo.
fornita dai raggi solari.

Il vapor d’acqua generato (col calore in esso incorporato) viene trasportato dai venti sulla terraferma e, salendo negli strati alti e freddi dell’atmosfera, condensa dando luogo a piogge che, raggiunto il suolo, scorrono in parte in superficie e, in parte, si infiltrano nel terreno generando il deflusso sotterraneo (Fig. 4.1).
 

Fig. 4.1. Il grande ciclo trasporta nell’entroterra l’acqua evaporata dal mare (a una distanza raramente superiore a qualche centinaia di km). I piccoli cicli, ripetendosi sul territorio, consentono di riutilizzare più volte la stessa acqua e, man mano, di trasportarla a maggior distanza dal mare. Senza questo “nastro trasportatore” d’acqua azionato dalla vegetazione (che reimmette nell’atmosfera l’acqua caduta con le piogge), le aree centrali dei continenti sarebbero desertiche. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
In condizioni di equilibrio, il volume d’acqua che fluisce dai continenti agli oceani è pari a quello che cade sui continenti sotto forma di precipitazioni alimentate dagli oceani. Ma deviazioni, anche piccole, dall’equilibrio possono provocare enormi problemi nei continenti, soprattutto se le deviazioni sono a lungo termine e se interessano la maggior parte dei bacini idrografici.

È quello che si è verificato a partire dalla rivoluzione industriale, con una marcata intensificazione nell’ultimo secolo: abbiamo sistematicamente ridotto l’infiltrazione dell’acqua piovana nel suolo (con la deforestazione, il drenaggio dei terreni per l’agricoltura, la capillare raccolta delle acque piovane e di quelle usate dalle sempre più estese aree urbanizzate e il loro rapido convogliamento ai fiumi e, di conseguenza, al mare).

In questo modo il livello delle falde si è abbassato riducendo il volume delle acque sotterranee, l’umidità del suolo è diminuita e, con essa, l’evapotraspirazione operata dalla vegetazione. Le acque così allontanate dai continenti sono finite nei mari, contribuendo (assieme allo scioglimento dei ghiacciai) al progressivo innalzamento del loro livello.

Allo stesso tempo, l’impoverimento idrico dei terreni ne ha aumentato l’aridità e ha innescato in vaste aree processi di desertificazione.

Il grande ciclo dell’acqua è accompagnato da molti piccoli cicli(20)Piccolo ciclo” può far pensare che coinvolga piccole quantità di acqua, ma è vero il contrario. Infatti, sebbene la precipitazione media annua sulla terra sia di 720 mm, di questi solo 310 provengono dal mare (grande ciclo), mentre 410 provengono dall’evaporazione terrestre (piccolo ciclo). Piccolo si riferisce dunque alla distanza percorsa, non certo all’importanza.. Una parte dell’acqua piovuta sul suolo, infatti, evapora nuovamente in maniera passiva (dal terreno bagnato, laghi, zone umide) e, soprattutto, in maniera attiva (attraverso il pompaggio operato dalla vegetazione, il trasporto verso le foglie e la traspirazione dai loro stomi).

Mentre nel grande ciclo l’acqua viene trasportata (sotto forma di vapore) a notevole distanza dal mare alla terraferma, nei piccoli cicli l’acqua che evapora dalla terraferma ricade sotto forma di precipitazioni su di essa ad una distanza relativamente limitata (dipendente dai venti, dall’orografia e dalla temperatura). Si tratta dunque di un meccanismo di “riciclaggio” che, generando nuove evaporazioni e precipitazioni, consente di riutilizzare più volte la stessa acqua.

Un’altra funzione dei piccoli cicli è quella di trasportare l’acqua “a piccoli passi” sempre più all’interno dei continenti: senza i ripetuti piccoli cicli azionati dalla vegetazione (che reimmette nell’atmosfera l’acqua caduta con le piogge), infatti, le aree centrali dei continenti sarebbero desertiche(21)Le nuvole formatesi sopra i mari riforniscono d’acqua la terraferma, spingendosi fino a qualche centinaia di km dalla costa (non oltre perché, nel tragitto, le nuvole scaricano la loro pioggia); già a 600 km l’aridità è tale che compaiono i primi deserti. Quindi, teoricamente, la vita sarebbe possibile solo nella fascia periferica dei continenti, mentre al loro interno sarebbe desolantemente arido.
Grazie all’evapotraspirazione delle foreste, tuttavia, si formano nuove nuvole che si spostano verso l’entroterra. Ogni foresta funziona dunque come una stazione di pompaggio e il gioco si ripete fornendo umidità anche alle aree più sperdute. Così nel bacino amazzonico, per varie migliaia di km non c’è quasi differenza di precipitazioni tra le regioni costiere e quelle dell’entroterra, a patto che dal mare fino all’angolo più remoto vi sia una foresta.
Ma se viene a mancare il primo elemento (la foresta costiera) l’intero sistema crolla. Ciò testimonia l’importanza e il ruolo centrale del piccolo ciclo dell’acqua e della forestazione. Fonte: Peter Wohlleben. La vita segreta degli alberi. Ed. Macro, 2016.
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Grazie all’evapotraspirazione, dunque, le foreste sono portentose “fabbriche d’acqua” che viene conservata sul territorio e “seminata” sui territori adiacenti favorendone la saturazione idrica del suolo. Come vedremo, la saturazione idrica dei suoli è il più potente stabilizzatore climatico.
 
 

4.2      L’acqua come termoregolatore climatico locale e globale

 

Come si è detto, l’evaporazione dell’acqua assorbe una gran quantità di calore che, ovviamente, viene rilasciato nell’atmosfera al momento della sua condensazione in pioggia. I piccoli cicli dell’acqua pertanto –sottraendo calore nei territori caldi, trasportandolo (incorporato nel vapor d’acqua) e restituendolo nei luoghi freddi (con la sua condensazione in pioggia)– svolgono un ruolo fondamentale nella termoregolazione di un dato territorio (e dell’intero pianeta).

Ma, naturalmente, il terreno vegetato può esplicare un efficace raffrescamento(22)Tutti sanno che sostare all’ombra di un albero fornisce un refrigerio dalla calura estiva, ma forse non tutti sono consapevoli che questo è dovuto in minima parte all’ombreggiamento: il vero effetto rinfrescante (quello che fa la differenza tra sostare sotto un albero o sotto un ombrellone) è dovuto alla sottrazione di calore prodotta dall’evapotraspirazione dell’albero.
Nel corso di una giornata di sole, un singolo albero con una chioma di 10 m di diametro e con sufficiente acqua nel suolo raffresca con una potenza di 20-30 kW, cioè superiore a quello di 10 impianti domestici di aria condizionata.
solo se contiene l’acqua necessaria all’evapotraspirazione(23)L’evaporazione è il passaggio diretto dell’acqua a vapore (ad es. da uno stagno, dall’umidità del terreno). La traspirazione è un processo attivo operato dalla vegetazione, con pompaggio di acqua dal suolo, trasporto alle foglie e liberazione di vapore dagli stomi. L’evapotraspirazione comprende entrambi i processi.. In un suolo drenato (ad es. coltivato a cereali), pertanto, l’evapotraspirazione sarà modesta e la maggior parte dei raggi solari si trasformerà in calore sensibile, cioè in aumento della temperatura (Fig. 4.2A).
 

Fig. 4.2. A: distribuzione dell’energia solare su un’area asciutta (coltura drenata) e una satura d’acqua. Nella prima il calore assorbito dall’evapotraspirazione è solo il 10-20% della radiazione solare e ben il 60-70% di essa diviene calore sensibile (cioè caldo percepito). Nell’area satura d’acqua solo il 5-10% riscalda l’aria (calore sensibile) e ben il 70-80% della radiazione solare è assorbito dall’evapotraspirazione. B: termofotografia della piazza di Třeboň (Rep. Ceca) e del parco adiacente: sono evidenti le forti differenze di temperatura tra i tetti (oltre 30°C), le facciate e la piazza (circa 25°C) e il parco alberato (circa 17°C). C e D: foto dello spettro visibile e infrarosso di un sottile strato di vegetazione erbacea: il suolo nudo (16-18°C) è visibilmente più caldo dei fili d’erba e delle foglie di convolvolo e di tarassaco (13-14°C) raffreddate dall’evapotraspirazione. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
Nelle aree urbanizzate, addirittura, la copertura vegetale è estremamente limitata e le stesse acque piovane vengono immediatamente allontanate verso i fiumi e il mare da un efficiente sistema fognario. Gran parte della radiazione solare, pertanto, si libera come calore sensibile, direttamente percepibile (Fig. 4.2B).

In tal modo il drenaggio su vasta scala e la rimozione della vegetazione hanno condotto alla formazione delle “isole di calore”(Fig. 4.3) che compromettono fortemente la vivibilità di molte aree urbane (e inducono ulteriori consumi energetici per gli impianti di aria condizionata).
 

Fig. 4.3. La temperatura atmosferica (curva rosso scuro) è più bassa in corrispondenza della aree vegetate. Al di sopra dell’area urbanizzata (drenata e deforestata) l’evapotraspirazione è fortemente ridotta; ciò comporta la modifica delle condizioni microclimatiche. L’area si trasforma in un’isola di calore sulla quale si forma un “ombrello climatico” caldo. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
Ciononostante, a differenza del riscaldamento globale dovuto all’aumento della concentrazione atmosferica di CO2, gli effetti del drenaggio dei territori industrializzati e della riduzione della vegetazione funzionale non sono ancora pienamente riconosciuti sebbene, almeno a livello locale (nelle aree urbanizzate), comportino aumenti di temperatura ben superiori a quelli stimati dagli scenari del riscaldamento globale.
 
 

4.3      Urbanizzazione, deforestazione, drenaggio, regimazioni idrauliche

 

Nessuna civiltà ha mai banalizzato il valore dell’acqua né il bisogno di procurarsela; tuttavia, per ignoranza o per ottenere vantaggi a breve e medio termine, pochi hanno avuto la lungimiranza di gestirla in modo da assicurarsela per i secoli a venire.

Ricordando che la copertura forestale favorisce la saturazione idrica dei suoli (anche nei territori adiacenti) ed è un potente stabilizzatore climatico, si comprende facilmente perché la deforestazione attuata dalle antiche civiltà (per l’agricoltura, il pascolo, l’uso del legno) abbia danneggiato la “fabbrica dell’acqua” e indotto l’aridità del suolo(24)Le conseguenze negative della deforestazione –sotto forma di erosione del suolo e di inondazioni– colpirono le più antiche civiltà che consumarono grandi quantità di legno: si pensi al diluvio universale narrato nella bibbia e nell’epopea di Gilgamesh, ma anche alla desertificazione che ha colpito vaste aree del Medio Oriente (ancora coperte da fitte foreste nel II sec. a.C.).
Una situazione simile si è verificata anche in Afganistan e in Asia centrale; la stessa civilizzazione della valle dell’Indo collassò dopo la deforestazione intorno al 1400 a.C. Fonte: Kravčík et al., 2021.
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La lezione del ruolo della deforestazione nel tracollo (anche se graduale) di antiche civiltà non è ancora stata assimilata: nell’età moderna e ancor oggi la deforestazione procede a ritmi impressionanti. I risultati più immediati sono l’accelerazione del deflusso delle acque piovane, l’impo­verimento delle acque sotterranee e una rapida erosione del suolo, cioè proprio i fattori responsabili del declino di grandi civiltà del passato. Parallelamente, anche le condizioni microclimatiche di vaste regioni stanno cambiando.

Anche la conduzione dell’agricoltura ha un elevato impatto sul rischio alluvionale e sui cambiamenti climatici. La nascita dell’agricoltura (circa 10.000 anni fa) nella “Mezzaluna fertile” (dalla foce dell’Eufrate alla foce del Nilo), in Cina e poi in altre regioni ha consentito l’aumento della popolazione, la formazione di grandi centri abitati con alto livello di organizzazione, la divisione del lavoro, la rete di canali di irrigazione e di drenaggio, la produzione agricola su larga scala basata su un piccolo numero di colture non originarie del luogo ma eccezionalmente adatte alla produzione e alla conservazione. I cereali divennero così la base dell’agricoltura e ancora oggi rivestono un ruolo centrale.

Purtroppo i cereali, provenienti da erbe annuali della steppa, non possono prosperare in terreni umidi, ma richiedono un clima caratterizzato da un periodo arido e da un breve periodo di piogge. Per le coltivazioni cerealicole, pertanto, i terreni sono stati prosciugati con estesi sistemi di drenaggio che hanno reso arido il microclima; è stato così necessario sostituire con l’irrigazione il breve periodo di piogge. Anche a causa dell’agricoltura cerealicola estensiva, dunque, stiamo assistendo a un processo di disidratazione della terra su vaste superfici (Fig. 4.4A).

La recente meccanizzazione dell’agricoltura ha permesso di estendere la lavorazione su aree molto più vaste rispetto al passato ma, per sfruttarla al massimo, ha comportato l’eliminazione dei fossi e delle vecchie siepi di confine (accentuando l’erosione e l’aridità del suolo).

Anche la regimazione degli alvei (rettifiche, difese spondali, argini ecc.) per “conquistare” spazio da dedicare all’agricoltura, all’industria e all’urbanizzazione ha accelerato il deflusso delle acque incrementando il rischio alluvionale per le comunità situate a valle e diminuito la ritenzione idrica dei terreni (Fig. 4.4B). Gradualmente, anziché una benedizione, le acque piovane sono state considerate un rifiuto di cui liberarci il più rapidamente possibile, salvo poi dover correre ai ripari per procurarci l’acqua necessaria ai vari usi umani.

Paradossalmente, né le grandi dighe costruite per sfruttare l’energia idroelettrica, attenuare gli effetti delle piene o creare riserve di acqua potabile o irrigua, né la miriade di piccoli e medi invasi a fini irrigui, hanno contribuito ad aumentare le riserve idriche ma anzi, anche dal punto di vista quantitativo ed economico, sono meno efficaci della soluzione naturale di conservare le acque negli acquiferi sotterranei(25)Il tema è discusso in: Baldaccini e Sansoni, 2020. Contro la siccità: più invasi o più buonsenso? Biologia Ambientale, 34: ca 4-7 (2020). DOI 10.30463/ca201.002. L’articolo può essere richiesto agli autori..

Infine, non sarà mai abbastanza sottolineato l’impatto della moderna urbanizzazione sull’impo­verimento idrico del suolo, sull’incremento del rischio alluvionale, sulla rottura del piccolo ciclo del’acqua e sui cambiamenti climatici (riscaldamento globale e incremento degli eventi meteorologici estremi, quali inondazioni e siccità) (Fig. 4.4C).

L’imponente trasformazione degli ambienti rurali in urbani, infatti, ha indotto la carenza di spazi e la necessità di comfort, ribaltando la percezione delle piogge che –gradite nelle società rurali– sono diventate un fattore di disturbo. Quindi l’acqua piovana ha cominciato a essere considerata come acqua di scarico, da allontanare rapidamente tramite la rete fognaria (spesso assieme alle acque luride).

Basti pensare alle vaste superfici urbane completamente impermeabilizzate, alle acque cadute sui tetti che sono ormai scomparse alla vista (Fig. 4.4D), al reticolo idrografico tombato, all’attin­gimento idrico dal sottosuolo per soddisfare le varie esigenze, alla logica usa e getta del loro utilizzo: le aree urbanizzate sono le più intensamente drenate.
 

Fig. 4.4. Esempi di attività che inducono la rottura del piccolo ciclo dell’acqua. A: monocoltura di grano. Richiede il drenaggio del terreno; comporta riduzione delle acque sotterranee, erosione del suolo e inaridimento (già a colpo d’occhio evoca un deserto!). B: rettifica del fiume Latorica da meandriforme a rettilineo negli anni ’60 (Slovacchia); induce l’accelerazione dei deflussi e la riduzione dell’alimentazione dell’acquifero sotterraneo. C: Carrara vista dai monti. L’urbanizzazione spesso occupa interamente le aree planiziali e pedecollinari; comporta l’impermeabilizzazione del suolo, il drenaggio delle acque piovane, l’abbassamento della falda freatica. D: il pluviale raccoglie le acque cadute sui tetti e le invia, intubate, al più vicino corso d’acqua. Le acque piovane scompaiono così alla vista (spesso scompare anche il pluviale, incorporato nel muro). Fonte: A: Palouse (Stato di Washington). B: Kravčík et al., 2021. C e D: Legambiente Carrara.

 
 

4.4      Deficit idrico nel piccolo ciclo: alluvioni, siccità, riscaldamento globale

 

L’incremento degli eventi meteorologici estremi (alluvioni e siccità) è giustamente attribuito al riscaldamento globale indotto dall’aumento di CO2 atmosferica; in questo paragrafo, senza mettere in discussione tale attribuzione, viene sottolineato il ruolo –forse ancor più importante– esercitato dall’impoverimento del piccolo ciclo dell’acqua.

Nei capitoli 2 e 3 (Idrologia e Idraulica) è stato ampiamente spiegato come l’accelerazione dei deflussi aumenti il rischio alluvionale incrementando i picchi di piena a parità di precipitazioni, mentre nel paragrafo precedente sono state elencate le principali attività umane che determinano l’impoverimento del contenuto idrico del suolo.

In questo paragrafo saranno esposti i meccanismi attraverso i quali crescenti differenze di temperatura (indotte, in particolare, dall’urbanizzazione) causano cambiamenti del clima, tra cui l’aumento dell’intensità delle precipitazioni (che, ovviamente, accentua ulteriormente il rischio alluvionale).

L’impoverimento idrico del suolo indotto dall’uomo riduce il piccolo ciclo, cioè la quantità di acqua che può essere riciclata dalla vegetazione (tramite evapotraspirazione) generando nuove piogge sui territori adiacenti. Nelle aree urbanizzate (e, in minor misura, in quelle parzialmente drenate) il prosciugamento degli strati superficiali del suolo e la scarsità di copertura vegetale fanno sì che la radiazione solare sia in gran parte convertita in calore sensibile, creando isole termiche (si riveda la Fig. 4.3).

Ogni ulteriore riduzione del piccolo ciclo diminuisce leggermente il volume d’acqua disponibile, accentuando l’aridità (si confrontino le Fig. 4.5A e 4.5B).
 

Fig. 4.5. A: in un territorio con clima stabile gran parte delle precipitazioni (istogramma superiore) è riciclata grazie all’evapotraspirazione (istogramma inferiore); il piccolo ciclo (spirale) si mantiene stabile nel lungo periodo. B: nei territori drenati, invece, si riducono progressivamente sia le precipitazioni sia l’evapotraspirazione; anche la quantità d’acqua riciclata (C), pertanto, si riduce (spirale blu), mentre compaiono e poi si intensificano gli eventi meteorologici estremi (spirale arancione). Per la spiegazione di quest’ultimo fenomeno (meno pioggia, ma più inondazioni) si vedano il testo e la Fig. 4.6. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
La riduzione delle precipitazioni sulle isole di calore è facilmente comprensibile. Può stupire, semmai, che ne risentano (con incremento delle precipitazioni e degli eventi meteorologici estremi) anche le regioni più naturali o quelle più fredde e umide, non direttamente interessate dal drenaggio; tuttavia, una volta compresi i meccanismi, la ragione diviene semplice.

L’aria più calda che si genera sopra le zone urbane e agricole calde e secche (ma anche su ambienti desertici) sale allontanando le formazioni nuvolose (formatesi localmente o provenienti da altre aree), finché queste raggiungono quote più elevate o ambienti più freddi (es. boschi o corpi idrici), dove scaricano la pioggia (Fig. 4.6A).

Così, mentre sulle isole di calore le precipitazioni diminuiscono, sulle aree fredde (es. montagne) si verifica una concentrazione senza precedenti della copertura nuvolosa che dà luogo a precipitazioni eccezionali che generano tragiche onde di piena che colpiscono poi le regioni agricole o urbane situate a valle.

In tal modo il drenaggio dei terreni urbani (fognature), pur riducendo le precipitazioni su di essi, li espone a inondazioni ancor più intense di prima (provenienti dal territorio montano, soggetto a precipitazioni più intense: Fig. 4.6B). Ecco spiegato l’apparente paradosso dell’aumento delle inondazioni in aree (urbanizzate) in cui –per l’aridità e il riscaldamento indotti dall’intenso drenaggio– le precipitazioni si sono ridotte.
 

Fig. 4.6. A: rottura dei piccoli cicli dell’acqua causato dalle trasformazioni del suolo. L’aumento dei flussi d’aria calda allontana le nuvole: scaricheranno la pioggia dove incontreranno un ambiente più freddo. B: l’allontanamento delle nuvole dai territori caldi provoca una concentrazione senza precedenti della copertura nuvolosa negli ambienti freddi (montani) dove produce precipitazioni più intense (che, ovviamente, determinano inondazioni anche nelle sottostanti aree urbanizzate). Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
Va ricordato che l’aumento degli eventi meteorologici estremi non riguarda solo le inondazioni, ma anche le siccità. In effetti, la maggior parte delle piogge si è concentrata in un periodo più ridotto (più inondazioni) e i periodi di scarse precipitazioni si sono allungati (più siccità).

Poiché l’impoverimento idrico dei terreni è progressivo e sistematico e interessa ormai gran parte della superficie terrestre, l’insieme dei micro-processi locali genera macro-processi ben riconoscibili nei cambiamenti climatici a livello regionale, continentale e globale(26)Le serie storiche delle precipitazioni annue nel (freddo) Nord Europa, infatti, mostrano un aumento del 10-40% nel XX secolo e una riduzione del 20% nella regione (calda) del Mediterraneo. Fonte: Kravčík et al., 2021..

Riassumendo, l’espressione più devastante dei cambiamenti climatici in atto è l’intensificazione degli eventi meteorologici estremi che colpisce i territori più drenati. Paradossalmente, proprio le inondazioni più distruttive e più frequenti impediscono alle persone di rendersi conto che il loro paese sta attraversando un processo di desertificazione.

Tale mancanza di consapevolezza diffusa deriva anche dall’affermazione del paradigma del riscaldamento globale nella sua attuale accezione limitata, che sostanzialmente attribuisce le cause al solo aumento della CO2 atmosferica, trascurando la fondamentale importanza delle alterazioni del piccolo ciclo dell’acqua, brevemente illustrate in questo paragrafo.

Una trascuratezza dalle gravi conseguenze pratiche poiché, focalizzando le misure sulla riduzione delle emissioni di CO2 a livello internazionale, deresponsabilizza le comunità locali il cui attivo coinvolgimento in una gestione delle acque finalizzata a favorirne l’infiltrazione nel suolo sarebbe, invece, determinante per contrastare i cambiamenti climatici(27)Anche l’innalzamento del livello degli oceani (stimato in 10 cm nell’ultimo secolo) potrebbe essere attribuibile non al solo scioglimento dei ghiacciai ma, in parte significativa, al riversamento in mare delle acque drenate dalle terre emerse su larghissima scala. Fonte: Kravčík et al., 2021..
 
 

4.5       Il riscaldamento globale inaridisce la terra o ne è una conseguenza? Una disputa scientifica

 

Il vecchio paradigma dell’acqua non è mai stato esplicitato in una teoria unificata, ma è profondamente e concretamente radicato nella gestione dominante delle acque, fondata sulla convinzione che queste siano risorse eternamente rinnovabili e ispirata al loro completo “addomesticamento” (artificializzazione), sia per allontanare quelle indesiderate (drenaggio dei territori agricoli e urbani, regimazioni fluviali, prosciugamento delle zone umide ecc.) sia per procurarsi quelle desiderate (dighe, invasi, canali, pompaggio delle acque sotterranee ecc.).

Il grado di sviluppo tecnologico raggiunto nel XX secolo è stato tale da consentire la modifica del ciclo dell’acqua in una misura senza precedenti e, come si è visto, i risultati sono stati fallimentari non solo per le conseguenze climatiche (riscaldamento globale, siccità, desertificazione, inondazioni, erosione del suolo), ma anche per la decrescente disponibilità delle acque stesse. È divenuto palese, infatti, che l’acqua è una risorsa rinnovabile solo finché il suo ciclo è ben funzionante. Da qui la necessità di un nuovo paradigma che lo restauri e lo protegga.

Si è già visto che l’inaridimento è causato dalla deforestazione (compromette la “pompa” evapotraspirante che aziona il piccolo ciclo dell’acqua) e dal drenaggio delle aree agricole e urbane (sottrae le acque al piccolo ciclo, gettandole a mare) e che, con una reazione a catena, le isole di calore così create alterano la distribuzione delle nuvole e portano al riscaldamento del pianeta, alla destabilizzazione del ciclo dell’acqua e all’aumento degli eventi meteorologici estremi.

Al lettore attento non sarà certo sfuggito che, mentre il paradigma climatico attuale considera il riscaldamento globale (indotto dalla CO2) la causa dell’inaridimento della terra, secondo il nuovo paradigma dell’acqua il riscaldamento globale è una conseguenza dell’inaridimento della terra.

Non è questa la sede per affrontare la disputa scientifica(28)Che gli eventi meteorologici estremi siano una conseguenza –se non addirittura un sinonimo– del riscaldamento globale è messo in discussione dall’optimum climatico medievale, un periodo di quasi 500 anni (IX-XIV sec.). Il periodo fu più caldo del XX secolo (la vite e l’olivo prosperavano fino al nord della Gran Bretagna, i Vichinghi approfittarono del ritiro dei ghiacciai per colonizzare la Groenlandia), ma fu anche un periodo di stabilità climatica senza precedenti (che consentì un boom economico), solo occasionalmente interrotto da eventi meteorologici estremi. Per contro, il successivo periodo di raffreddamento (piccola era glaciale: metà XIV-metà XIX sec.) portò in Europa un’elevata instabilità meteorologica accompagnata da povertà, carestie, epidemie.: ci basti sapere che, mentre secondo la teoria del riscaldamento da CO2 (che mantiene in gran parte la sua validità) il riscaldamento del pianeta proseguirà per secoli anche dopo la cessazione delle emissioni di gas serra, il nuovo paradigma dell’acqua prevede la possibilità di rallentare il riscaldamento in tempi brevi (decenni) semplicemente (si fa per dire, visto che comporterà grandi sforzi) favorendo su larga scala l’infiltra­zione delle piogge nel suolo e riattivando così il piccolo ciclo dell’acqua.

Lasciando alla scienza la soluzione della disputa, ci limitiamo a osservare che –almeno a livello locale– l’applicazione del nuovo paradigma dell’acqua non può che portare grandi benefici. Al momento attuale, pertanto, la soluzione più ragionevole sta nell’adottare le misure più convalidate di entrambe le teorie e che non contraddicano né l’una né l’altra: continuare cioè a ridurre le emissioni di CO2 e iniziare a favorire l’infiltrazione nel suolo delle acque piovane.
 
 

4.6      Come risanare il clima e contrastare alluvioni e siccità: restituire l’acqua al suolo!

 

I sistemi tradizionali per conservare l’acqua nel XX secolo  erano –e sono tuttora– fondati sulla costruzione di invasi (spesso mediante dighe); l’acqua in tal modo raccolta può così soddisfare i vari usi umani. Questa misura, “neutra” per il paradigma del riscaldamento globale (poiché non influisce sulla CO2 atmosferica), è invece considerata fortemente dannosa dal nuovo paradigma dell’acqua.

L’obiettivo di quest’ultimo, infatti, è di restituire l’acqua piovana al piccolo ciclo, consentendone l’infiltrazione nel suolo, la sua saturazione e la creazione di riserve idriche sotterranee. In tal modo si favorisce la crescita della vegetazione che, come si è visto, funge da elemento di regolazione del microclima tra il suolo e l’atmosfera. In un territorio, la capacità di accumulo idrico del suolo (e sottosuolo) è solitamente molto superiore al volume dei più grandi bacini artificiali.

Questo processo di saturazione del piccolo ciclo dell’acqua dovrà divenire pratica abituale e diffusa, in modo da correggere progressivamente lo sbilanciamento del piccolo ciclo. Tali azioni sono semplici, efficaci ed economiche, ma devono essere attuate su vasta scala (locale, regionale, nazionale, continentale): lasciare inalterate grandi isole di calore, infatti, diminuirebbe l’efficacia delle misure adottate. Un vantaggio supplementare della creazione di riserve idriche sotterranee sta nel fatto che queste, scorrendo lentamente per gravità, si estendono gradualmente ai territori situati a valle, potenziando così l’effetto di stabilizzazione climatica.

La difficoltà principale dell’attuazione di tali misure su larga scala non sta dunque nei costi (ben inferiori a quelli della gestione attuale), ma nel fatto che richiede una rivoluzione culturale(29)Nel suo piccolo, anche l’obiettivo di questo manuale è una radicale rivoluzione culturale.. Può aiutare la desiderabilità sociale di tale rivoluzione la consapevolezza della portata dei risultati raggiungibili: non solo la mitigazione degli eventi meteorologici estremi (Fig. 4.7A), in particolare inondazioni e siccità (e sarebbe già sufficiente!), ma addirittura la prospettiva di recuperare anche le aree desertiche e semidesertiche attraverso l’uso intelligente dell’acqua piovana (Fig. 4.7B, C, D).

 

Fig. 4.7. A: la raccolta delle acque piovane e la loro infiltrazione nel suolo (anziché allontanarle verso il mare) permette di arrestare il deterioramento del piccolo ciclo dell’acqua e ne favorisce il recupero (accompagnato dalla riduzione degli eventi meteorologici estremi). B: schema dell’espansione delle zone aride o semiaride con la rottura del piccolo ciclo. Le acque evaporate dal mare (grande ciclo) si scaricano sulle fredde montagne; sul versante interno, l’assenza del piccolo ciclo consente l’avanzata del fronte arido. C e D: le indicazioni del nuovo paradigma dell’acqua aprono anche la prospettiva di recuperare le aree semidesertiche e desertiche raccogliendo le acque piovane in micro-bacini al margine delle aree critiche e riattivando così (sia pure molto lentamente) il piccolo ciclo. La ripresa dell’evaporazione consente la formazione di nuvole che, schermando la radiazione solare e producendo qualche precipitazione (e la colonizzazione vegetale) determinano il progressivo arretramento dell’area semidesertica. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
 
 

 
 
 

5.   NUOVI OBIETTIVI: LA CITTÀ SPUGNA

 

Nel capitolo 2 sono stati esposti i fondamenti dell’idrologia e ne è stata tratta la lezione di fondo che la misura principale per ridurre il rischio alluvionale è rallentare il deflusso delle acque piovane in modo da favorirne l’infiltrazione nel suolo, trattenerne una parte nel sottosuolo e ritardare la loro emersione in superficie (negli alvei).

La lezione tratta dal capitolo 3 (idraulica) è analoga: per ridurre il rischio alluvionale dobbiamo rallentare il deflusso delle acque negli alvei, durante il loro percorso dai primi ruscelli montani al mare.

Come si è visto nel capitolo 4, anche il nuovo paradigma dell’acqua ci dice –in piena coerenza con l’idrologia e l’idraulica– che, se vogliamo contrastare l’incremento delle alluvioni (nonché delle siccità e del riscaldamento globale), dobbiamo trattenere le acque sul territorio (anziché gettarle rapidamente a mare) e favorirne ovunque l’infiltrazione nel suolo, riattivando così il piccolo ciclo dell’acqua.

Risulta quindi evidente lo stridente contrasto tra queste concordanti indicazioni scientifiche e l’operato quotidiano di singoli, amministrazioni e enti, sistematicamente rivolto ad allontanare il più rapidamente possibile le acque piovane (riversandole a mare), concepite non come una preziosa risorsa, ma come fonte di danni alle aree urbanizzate e ostacolo alla loro espansione nelle aree inondabili.

Questo approccio ha permesso importanti progressi (“conquista” di territorio urbano o agricolo), ma ha comportato una maggior vulnerabilità del territorio così “liberato” dalle zone umide o dalle aree fino ad allora di pertinenza fluviale, inducendo la necessità di renderlo più sicuro e confortevole.

Da qui il proliferare di opere fluviali (argini, rettifiche, risagomature, dighe…) finalizzate a “domare” i fiumi e del capillare reticolo fognario per allontanare dalle città le acque usate e quelle piovane, recapitandole rapidamente al fiume più vicino, reso però sempre più ristretto. Un circolo vizioso che incrementa progressivamente le portate in alveo (e, dunque, il rischio alluvionale) ma anche l’impoverimento idrico del suolo e le sue conseguenze climatiche: isole di calore urbane e agricole e accentuazione sia delle siccità sia delle inondazioni.

Per uscire da questo circolo vizioso occorre abbandonare l’attuale approccio e adottarne un altro che, pur non rinunciando a intervenire sui fiumi (soprattutto per correggere errori del passato), sposti l’attenzione sulla corretta gestione del territorio, potenziando i meccanismi protettivi naturali e rimuovendo le opere controproducenti (o mitigandone gli effetti).

A tal fine, in questo capitolo sono esposti principi e tecniche delle misure naturali di ritenzione delle acque (NWRM – Natural Water Retention Measures) raccomandate dalla Commissione Europea(30)European Commission, 2014. A guide to support the selection, design and implementation of Natural Water Retention Measures in Europe. European Commission, Directorate General for Environment, Directorate C – Quality of Life, Water & Air, Unit C1-Water, Brussels. http://nwrm.eu/.
 
 

5.1       Misure di ritenzione idrica naturale (NWRM)

 

Caratteristica delle misure di ritenzione idrica naturale è la loro multifunzionalità; in altre parole, anche quando sono finalizzate a un particolare scopo, conseguono contestualmente più obiettivi. Migliorando la capacità di ritenzione delle acque nel suolo, nelle falde acquifere e negli ecosistemi acquatici, infatti, le NWRM accrescono le risorse idriche superficiali e sotterranee e ne migliorano la qualità, riducono la vulnerabilità alle inondazioni e alle siccità e contribuiscono sia all’adattamento ai cambiamenti climatici che alla loro mitigazione (Fig. 5.1).
 

Fig. 5.1. A: rappresentazione schematica dei principali destini delle acque piovane in un bacino naturale e di alcuni servizi ecosistemici forniti: rallentamento dei deflussi, piene più contenute, ricarica dell’acquifero, evapotraspirazione (con i relativi effetti di stabilizzazione climatica). B: compromissione dei servizi ecosistemici in un bacino urbano. Fonte: Sustainable drainage (www.susdrain.org).

 
Va sottolineato che le NWRM non sono nuove misure, ma comprendono diverse misure già adottate (come best practices) in ambiti settoriali quali conservazione della natura, infrastrutture verdi per la gestione delle acque, approcci ecosistemici o basati sulla natura, conservazione del suolo, rinaturalizzazione fluviale, ripristino delle zone umide, gestione sostenibile o naturale delle inondazioni, sistemi di drenaggio sostenibile (SuDS) urbano o rurale, bioingegneria, approvvigionamento idrico, dispositivi di attenuazione dei deflussi (RAF – Runoff Attenuation Features) e molti altri. Questi termini, sebbene non siano sinonimi, si riferiscono ad alcune caratteristiche della più ampia famiglia delle NWRM.

La vera novità sta nel riconoscimento delle loro molteplici prestazioni e delle opportunità di applicazione anche in settori diversi da quelli in cui sono stati sviluppati e tradizionalmente attuati. Raramente una NWRM è attuata da sola; solitamente è realizzata in combinazione con altre NWRM e spesso anche con le infrastrutture “grigie” (opere in cemento o asfalto, es. fognature, strade).

In ambito urbano le misure di ritenzione idrica naturale sono finalizzate a ottenere “sponge city” (città spugna), un termine coniato in Cina che riguarda lo sviluppo di città in grado di assorbire l’acqua piovana come delle spugne e, quindi, di ridurre i rischi di allagamento dovuti all’eccessiva impermeabilizzazione. Segnaliamo con soddisfazione la stretta analogia lessicale e funzionale con i ravaneti spugna da noi proposti nell’ambito montano.

La sfida consiste nel trovare la giusta combinazione di misure che risponda alle caratteristiche e ai problemi di gestione del nostro territorio. Con gli spunti proposti in questo capitolo cercheremo di presentare una panoramica, necessariamente contenuta, di misure applicabili alla nostra situazione.
 
 

5.2       Incremento e miglioramento della forestazione

 

Tra i meccanismi protettivi naturali si è già visto (nel par. 2.3) l’importante ruolo svolto dalla forestazione nel bacino montano, grazie al duplice effetto di favorire l’immagazzinamento di grandi quantità di acqua nel suolo (sottraendole alla formazione dei picchi di piena) e di rallentare il loro scorrimento sotterraneo.

D’altronde è ben noto che in un bacino con buona copertura forestale i picchi di piena sono più attenuati e che, man mano che si intensifica l’urbanizzazione del bacino, essi diventano più accentuati e improvvisi (Fig. 5.2).
 

Fig. 5.2. Andamento del picco di piena secondo il grado di antropizzazione del bacino. A parità di precipitazioni, la miglior protezione dal rischio alluvionale è fornita dal bacino forestale: il picco di piena è più basso, più graduale e più ritardato; la coda di piena si esaurisce più lentamente, alimentando l’alveo anche nel successivo periodo non piovoso. In pratica, l’intero volume piovuto si distribuisce su un tempo più lungo. Nel bacino urbanizzato (nella foto Carrara) l’infiltrazione nel suolo è ridotta al minimo: le acque precipitate, pertanto, scorrono ben presto in superficie e convergono rapidamente a formare un picco di piena anticipato e molto accentuato, brusco (con rapida salita e rapida discesa); al termine della precipitazione la portata in alveo declina più rapidamente; in pratica, il picco di piena risulta catastrofico proprio perché l’intero volume piovuto si distribuisce in un tempo più breve. Nel bacino incolto si verifica una situazione intermedia.

 
Se il suolo forestato fornisce la massima protezione, l’estremo opposto è il territorio urbanizzato. L’urbanizzazione, infatti, non solo riduce drasticamente l’infiltrazione (data l’estensione delle superfici impermeabili: strade, parcheggi, tetti ecc.), ma accentua al massimo l’accelerazione dei deflussi. L’urbanizzazione, infatti, è accompagnata dalla trasformazione del reticolo idrografico naturale in canali sotterranei in cemento (le fognature) appositamente progettati (rettilinei e lisci) per allontanare il più rapidamente possibile le acque piovane “sparandole” nel più vicino corso d’acqua.

All’innalzamento del picco di piena contribuiscono due fattori: la maggior frazione di acqua che scorre nei fiumi (poiché non può infiltrarsi nel suolo impermeabilizzato) e la ben più rapida concentrazione in alveo (grazie a canalizzazioni e alla rete fognaria) delle acque cadute sull’intero bacino.

Tra le misure per mitigare il rischio alluvionale va quindi considerato l’incremento quantitativo e il miglioramento qualitativo della forestazione nel territorio montano e collinare, ma anche in quello di pianura.

Se nei primi capitoli abbiamo concentrato l’attenzione sul bacino montano, non va dimenticato che la fabbrica del rischio alluvionale opera quotidianamente in maniera pervasiva sull’intero territorio, compreso quello collinare e quello di pianura (ancor più intensamente urbanizzato).

I prossimi paragrafi, pertanto, pur non trascurando il territorio montano, estendono l’attenzione al territorio collinare e di pianura. Il loro principio ispiratore unificante è quello di accrescere quanto più possibile l’assorbimento di acqua nel suolo (dunque l’esatto contrario della strategia attuale, finalizzato ad allontanarla dal territorio riversandola nei fiumi).
 
 

5.3       Favorire l’infiltrazione sul suolo collinare

 

Un semplice sistema per trattenere le acque piovane sui pendii collinari è la costruzione di piccoli bacini di ritenzione temporanei mediante argini in terra (Fig. 5.3A) disposti lungo le curve di livello in modo tale che, colmati i bacini superiori, le acque di sfioro vengano intercettate da quelli sottostanti (Fig. 5.3B e C).

Con tali misure tecniche (dette biotecniche se associate all’uso di vegetazione: Fig. 5.3D) il pendio può trattenere quantità di acqua (qualche m3 per bacino) sufficienti a mantenerlo umido a lungo, favorendo l’evapotraspirazione e il potenziamento del piccolo ciclo dell’acqua.

Si tratta di una misura semplice di “cura del territorio” –che può ben rientrare (magari incentivandola) nella pianificazione urbanistica e territoriale e nei relativi regolamenti– e che, rallentando i deflussi e trattenendo i sedimenti, svolge anche un’efficace protezione del suolo dall’erosione.
 

Fig. 5.3. Esempio di bacini di ritenzione idrica da realizzare con argini in terra, disposti a cascata, per la raccolta delle acque piovane sui pendii. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
Su analoghi principi sono basate diversi altri tipi di microstrutture per la protezione del suolo dall’erosione e per la raccolta e conservazione delle acque piovane sul terreno; alcune di esse sono particolarmente adatte nelle zone semiaride per favorire la coltivazione e contrastare la desertificazione (Fig. 5.4).
 

Fig. 5.4. Esempi schematici di tecniche per la raccolta e conservazione dell’acqua piovana sul terreno e per la protezione del suolo dall’erosione. Fonte: Kravčík et al., 2021.
1)   I microbacini tipo Vallerani, ottenibili con un apposito sistema di aratura, sono utilizzati nella riforestazione rapida e naturale, nel rispetto della biodiversità, per la lotta alla desertificazione dovuta ai cambiamenti climatici.
2)   Meskat è un’area (circa 500 m²) di raccolta  del deflusso superficiale (mediante un argine in terra) in aree semiaride che approvvigiona un’area di coltivazione (chiamata mankaa) di circa 250 m². L’intero sistema è circondato da un cordolo di circa 20 cm ed è dotato di sfioratori per consentire il deflusso nel mankaa. Un meskat può avere più di un mankaa disposti in linea. Il deflusso in eccesso si riversa da un mankaa all’altro. I meskat, tradizionalmente usati in Tunisia, sono adatti su pendenze del 2-15% e per aree con precipitazioni annuali di 200-400 mm. Sono utilizzati per la coltivazione di alberi (es. olive, fichi, datteri), uva e cereali (orzo e grano).
3)   Negarim è un intervento che consiste in microbacini di ritenzione caratterizzati da una forma a diamante, delimitati da bassi cordoli di terra. Questa tecnica di raccolta dell’acqua viene utilizzata principalmente per la coltivazione di alberi e cespugli in aree aride e semiaride ma, come effetto collaterale, preserva anche il suolo dall’erosione.

 
Altri dispositivi di conservazione delle acque piovane sul suolo che, nel contempo, forniscono la stabilizzazione dei versanti, il recupero ecologico e la protezione da allagamenti sono la realizzazione di zone umide artificiali sui pendii e di fossi orizzontali di ritenzione delle acque, disposti lungo le curve di livello (Fig. 5.5).
 

Fig. 5.5. Dispositivi di conservazione dell’acqua sul territorio e di protezione dagli allagamenti. A: costruzione di una zona umida artificiale negli Alti Tatra (Slovacchia) a protezione del territorio pedemontano recentemente colpito da un disastro naturale. B: protezione  di un complesso residenziale posto ai piedi di un pendio, grazie a bacini di ritenzione idrica (fossi orizzontali) disposti lungo le curve di livello. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
Nelle aree collinari uno dei sistemi più efficaci per rallentare i deflussi, prevenire l’erosione e conservare le acque nel suolo è il terrazzamento. Sulle superfici piane dei terrazzi, infatti, le acque piovane scorrono lentamente e tendono a infiltrarsi nel suolo, mentre le particelle terrose eventualmente asportate dal ruscellamento superficiale si depositano nelle piane sottostanti (Fig. 5.6).
 

Fig. 5.6. Confronto tra buone e cattive pratiche agricole sui pendii collinari. A: paesaggio agricolo terrazzato tra Varese Ligure e S. Pietro Vara (SP): i terrazzi, rallentando notevolmente il deflusso delle acque, riducono l’erosione e i picchi di piena a valle, favoriscono l’infiltrazione nel suolo e mantengono attivo il piccolo ciclo dell’acqua. B: esempio di cattiva conduzione agricola, poco a valle della foto precedente (in basso il F. Vara: freccia). L’aratura a rittochino (secondo le linee di massima pendenza) –anziché a girocolle (secondo le curve di livello)– effettuata durante la discesa trascina a valle lo strato superficiale del suolo, favorendone l’erosione. L’accresciuta velocità del ruscellamento superficiale, accentuata dalla lunghezza del pendio, incrementa il rischio alluvionale a valle, mentre la ridotta infiltrazione idrica nel suolo compromette il piccolo ciclo dell’acqua. Fonte: Sansoni, 1991. Il bacino del Magra:mappaggio biologico del reticolo idrografico, sintesi ecologica, problematiche ambientali, proposte di risanamento. Tesi laurea Sc. Naturali, Univ. Pisa.

 
I benefici effetti del terrazzamento possono essere ulteriormente potenziati utilizzando, come barriere che trattengono e rallentano lo scorrimento superficiale, bassi dossi in terra e/o strette siepi erbaceo-arbustive posti trasversalmente alla pendenza dei terrazzi e lungo il loro bordo di valle (Fig. 5.7).
 

Fig. 5.7. Schema del possibile potenziamento dei benefici effetti idrologici del terrazzamento. La freccia indica la direzione di scorrimento delle acque piovane sui terrazzi; la realizzazione di bassi dossi in terra (preferibilmente associati all’impianto di strette siepi erbaceo-arbustive) lungo le linee punteggiate (il bordo di valle dei terrazzi e trasversalmente alla linea di pendenza laterale) contribuirebbe a rallentare ulteriormente il deflusso e a favorire l’infiltrazione nel suolo. (Carrara, loc. Ficola).

 
Naturalmente, prima di realizzare tali interventi sono necessarie le verifiche di stabilità del versante e quelle di compatibilità con le eventuali coltivazioni(31)Le verifiche di stabilità sono volte ad assicurare che il maggior peso del terreno conseguente all’assorbimento di acqua non comporti il rischio di innesco di frane.
Le verifiche di compatibilità agronomica sono volte ad assicurare che il tempo di permanenza del ristagno idrico nel suolo non induca asfissia radicale delle eventuali coltivazioni, compromettendone il successo.
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5.4       Riqualificare i corsi d’acqua, ripristinare le piane inondabili

 

Per comprendere pienamente i concetti esposti in questo paragrafo è necessario premettere brevemente alcuni elementi di geomorfologia fluviale. La forma caratteristica dell’alveo, dovuta all’erosione di sedimenti e al loro deposito, è la risultante dell’interazione a lungo termine tra la portata liquida e quella solida.

Portate basse sono molto frequenti ma non sono in grado di effettuare un trasporto solido significativo; anche le piene eccezionali, tuttavia, pur effettuando un trasporto solido veramente ingente, sono così rare da non influire significativamente sulla morfologia abituale dell’alveo. Quest’ultima è dunque determinata dalla portata formativa (o dominante) dell’alveo, cioè da quella portata il cui prodotto tra frequenza e trasporto solido è massimo (nel lungo termine) e che, generalmente, corrisponde alla portata della piena con tempo di ritorno di 1-3 anni (Fig. 5.8A).

Questa portata determina il livello della piana inondabile, cioè di quella porzione della piana alluvionale (detta così perché costruita nel corso di millenni dai sedimenti depositati dalle alluvioni) che viene sommersa dalle piene ordinarie (Fig. 5.8B).

Nella pianificazione delle Autorità di distretto è prevista l’inedificabilità delle aree inondabili dalle piene duecentennali. A Carrara (e in molte altre città), tuttavia, l’urbanizzazione ha ormai invaso non solo l’intera piana alluvionale, ma anche la piana inondabile (che è stata separata dall’alveo attivo con la costruzione di muri arginali: Fig. 5.8C).
 

Fig. 5.8. A: la curva C (prodotto delle curve A e B) permette di individuare la portata dominante, cioè quella che, mobilizzando a lungo termine la maggior quantità di sedimenti, determina la conformazione media dell’alveo. B: terminologia fluviale. L’alveo attivo è costituito dall’alveo bagnato e dalle sue barre di sedimenti; esternamente (delimitata da una modesta scarpata) c’è la piana inondabile, sommersa dalle piene ordinarie; può seguire, a una quota maggiore, un terrazzo fluviale. L’insieme di questi elementi costituisce la piana alluvionale. Il livello di bankfull (o di alveo pieno) corrisponde a quello della piana inondabile. C: la linea gialla mostra la sezione schematica interpretativa della piana alluvionale del Carrione (loc. Stadio). La piana inondabile (qui presente su un solo lato e originariamente sommersa quasi ogni anno) è stata “strappata al fiume” e urbanizzata (edilizia residenziale e laboratori di marmo); l’alveo attivo è stato fortemente ristretto e confinato tra muri arginali.
Fonti: A: Wholman e Miller, 1960.Magnitude and frequency of forces in geomorphic processes. Journal of Geology, 68(1): 54-74. B: Rinaldi e Nardini A., 2005. Principi di geomorfologia fluviale. (Lezione al corso CIRF, febbraio 2005). C: foto satellitare Google Earth; interpretazione geomorfologica G. Sansoni.

 
Considerati questi vincoli, derivanti dai crimini idraulici passati e recenti, è impensabile ripristinare le condizioni naturali. Quel che si può ragionevolmente fare, pertanto, è restituire al fiume lembi di piana inondabile e riqualificare i corsi d’acqua.

Questo tipo di misure viene trattato molto brevemente poiché, in parte, è già stato affrontato nei paragrafi 3.1, 3.2 e 3.3 (restituire ai corsi d’acqua spazio, scabrezza e sinuosità), sia pure focalizzando l’attenzione sul solo obiettivo della riduzione del rischio alluvionale attraverso il rallentamento della velocità della corrente.

Va però ricordato che la conservazione (o il ripristino, anche parziale) della naturalità dei corsi d’acqua è una tra le più importanti ed efficaci misure che forniscono contestualmente più vantaggi: non solo rallentamento dei deflussi e riduzione del rischio alluvionale, ma anche tutela della diversità degli habitat e conservazione dell’acqua nel suolo, con i benefici effetti sul piccolo ciclo dell’acqua, tra i quali la riduzione degli eventi meteorologici estremi (Fig. 5.9).
 

Fig. 5.9. Disegno schematico di corso d’acqua e della sua piana inondabile in condizioni naturali (a sinistra) e dopo la loro disconnessione idraulica mediante arginatura (a destra). Le periodiche inondazioni della piana sono il “motore” geomorfologico che crea, mantiene e rinnova gli habitat. La periodica espansione delle acque di piena nella piana inondabile determina il rallentamento del deflusso e la riduzione del rischio alluvionale; nel contempo, l’acqua trattenuta nelle zone umide e la vegetazione riparia e planiziale favoriscono l’evapotraspirazione, alimentando il piccolo ciclo dell’acqua. L’arginatura, invece, impedendo le inondazioni, determina l’accelerazione del deflusso (“scaricando” le acque a mare), la progressiva scomparsa degli habitat perifluviali e il prosciugamento del suolo, disattivando il piccolo ciclo dell’acqua. Fonte: Sansoni, 2006. Cenni di morfologia fluviale. Lezione al corso “Ecologia della vegetazione negli ambienti fluviali”, Centro Ricerche ENEA, Saluggia (VC).

 
Si può ben comprendere, pertanto, quanto siano dannosi gli interventi di canalizzazione dei corsi d’acqua, purtroppo diffusi ovunque e, a Carrara, sistematicamente estesi a tutto il reticolo idrografico, dal più minuto a quello principale.

Concepiti in un’ottica localistica (sottrarre spazio ai corsi d’acqua e evitare allagamenti, anche di semplici campi disabitati nel territorio collinare), si traducono nella dissipazione di denaro pubblico per evitare modesti danni, provocandone però di ben più ingenti a valle (incrementando il rischio alluvionale proprio nelle aree più intensamente urbanizzate).

A ciò va aggiunto che la disconnessione idraulica tra il corso d’acqua e la sua piana inondabile (isolati l’uno dall’altra da muri arginali (e talora anche dal fondo) in cemento, ostacola o impedisce del tutto lo scambio idrico con le acque sotterranee (Fig. 5.10A e 5.10B).

Urge dunque mettere in atto un vasto piano di interventi che –ovunque sia ancora possibile– liberi i corsi d’acqua dalla loro camicia di forza in cemento, restituisca loro la larghezza, sinuosità e scabrezza originarie e ripristini l’espansione delle piene nella piana inondabile (Fig. 5.10C).
 

Fig. 5.10. A e B: il Canale di Romito (presso Dervillè) e il Fosso della Ficola (a monte di Pontecimato), fortemente ristretti e cementificati. Simili interventi, appositamente concepiti per “conquistare” terreno, ed estesi a molti altri corsi d’acqua, producono un rilevante aggravamento del rischio alluvionale. Occorre restituire loro lo spazio che, nel passato, è stato sottratto. C: un esempio di intervento, modesto ma che va nella direzione giusta: allargamento dell’alveo del T. Parmignola, ristretto entro argini in cemento. Su indicazione dell’Autorità di bacino del Magra, cogliendo l’occasione della necessità di riparare l’argine destro danneggiato da una piena, la strada è stata ricostruita a maggior distanza, per restituire un po’ di spazio all’alveo. Sebbene l’ampliamento sia stato limitato a una decina di metri per un paio di km, l’intervento è un esempio della direzione giusta da intraprendere. Se si vuole ridurre davvero il rischio alluvionale e ripristinare la funzionalità ecologica del territorio e quella del piccolo ciclo dell’acqua, occorre mettere in atto un grandioso piano di riqualificazione di tutti i corsi d’acqua di Carrara, dal più piccolo al più grande.

 
Analogo intervento di riqualificazione e allargamento dell’alveo è necessario per l’asta principale del Carrione, completamente ingabbiato entro rigidi muri da Carrara al mare (Fig. 5.11).
 

Fig. 5.11. Il Carrione ad Avenza, a monte del ponte di via Pucciarelli. Da Carrara al mare l’alveo è stato ristretto, rettificato e confinato tra argini dimensionati per la sola portata liquida trentennale: non è stato lasciato spazio per la vegetazione riparia e perifluviale, né per altri elementi morfologici di importanza biologica (sinuosità, barre, buche, raschi, isole fluviali…). L’unico obiettivo perseguito è stato il rapido allontanamento al mare delle acque di piena. Il risultato è un fiume sottratto alla fruizione dei cittadini (peraltro per nulla gradevole nelle attuali condizioni) e un sistema idraulicamente fragile: sono sufficienti accumuli di sedimenti, tronchi o rifiuti trasportati dalle piene, precipitazioni più intense del previsto o rotture degli argini per provocare inondazioni (già verificatesi nel 2003, 2012 e 2014).

 
Nonostante l’intensa urbanizzazione che ha interessato le sue sponde, è infatti ancora possibile, delocalizzando segherie, depositi di marmo o altre attività artigianali, triplicare la larghezza dell’alveo per quasi l’intero percorso da Carrara al mare, come documentato nelle Proposte  di Legambiente per il Piano di gestione del rischio alluvioni (2015), dalle quali è tratta la Fig. 5.12. Si tratta di una sfida che merita di essere raccolta, se non altro come misura di adattamento ai cambiamenti climatici.
 

Fig. 5.12. A: primo tratto del Carrione (dalla foce all’autostrada), visto dall’alto; delocalizzando gli insediamenti artigianali (aree in giallo) e/o sfruttando le aree non o poco edificate (aree in rosa) è possibile restituire spazio al Carrione, ampliandone notevolmente l’alveo. B: vista del territorio di Carrara, da poco a valle dell’autostrada ai monti; l’area perimetrata in verdee le aree artigianali (in giallo) corrispondono approssimativamente a quelle contrassegnate in A. Fonte: da Google Earth.

 
 

5.5       Mitigare l’impatto dei corsi d’acqua tombati

 

Ancor peggiore della situazione dei corsi d’acqua superficiali è quella del reticolo idrografico tombato (mai definizione fu più appropriata!), talmente scomparso alla vista che probabilmente è ignorato dalla maggioranza dei carraresi. Per comprendere quanto questa pratica sia diffusa, invasiva e radicata da tempo basti l’esempio del centro urbano di Carrara e adiacenze, dove tutti i fossi affluenti del Carrione sono stati tombati non appena giungevano a intersecare il perimetro del territorio urbanizzato (Fig. 5.13).
 

Fig. 5.13. Reticolo idrografico del centro città. In linea turchese continua i corsi d’acqua a cielo aperto; in linea turchese punteggiata quelli invisibili perché tombati. Si noti che l’inizio dei tratti tombati coincide praticamente con il perimetro del territorio urbanizzato (linea gialla). Fonte: tracciato corsi d’acqua da Geoportale Lamma (Regione Toscana), riportato su base cartografica Google Earth.

 
In questo modo le acque dei canali spariscono alla vista (Fig. 5.14) ma ricompaiono –fortemente accelerate– nel Carrione, incrementandone la portata. In occasione di precipitazioni eccezionali, inoltre, l’elevata pressione può far saltare la copertura della stessa tombatura. In ogni caso, il risultato è un incremento del rischio alluvionale.
 

Fig. 5.14. Il sistema tombato del Fosso del Bugliolo che attraversa Carrara sul lato sud-est. A: l’ingresso della tombatura del Fosso di Codena (in via Erevan) è palesemente stretto rispetto alla sezione del fosso che riceve (B); il conseguente rigurgito idraulico ha già provocato l’allagamento non solo della strada, ma anche delle case adiacenti, superando la sommità dei muri di sponda, posti a una quota ben più elevata (frecce). C: il Fosso della Foce nel suo tratto terminale a cielo aperto (la freccia indica il viadotto della Strada dei Marmi); poco a valle (D) è visibile l’inizio della tombatura (freccia). E: Can. del Rio, imbocco della tombatura con pettine di protezione dall’ingresso di tronchi e ramaglie. F: idem, vista verso monte: le due briglie (frecce) formano vasche di sedimentazione per trattenere i ciottoli che, altrimenti, potrebbero intasare il tratto tombato. Al momento, però, le vasche sono colme (settembre 2021). G: il canale tombato scorre sotto via Canal del Rio; le toppe dell’asfalto (frecce) indicano i punti in cui, anni fa, il canale è esploso. H: uscita a cielo aperto del Fosso del Bugliolo (al di sotto del viale XX Settembre), poco prima di immettersi nel Carrione.

 
Se è possibile riportare a cielo aperto alcuni fossi tombati di pianura e restituire loro ampio spazio, va preso atto che per quelli situati in pieno ambito urbano tale modalità di recupero è ormai impraticabile (in quanto molto complicata e costosa). È questa una ragione in più per compensarne l’impatto mettendo in atto, su tutto il territorio, interventi appartenenti alla vasta famiglia delle misure di ritenzione idrica naturale richiamata nel paragrafo 5.1.

A titolo di esempio, l’impatto della tombatura dei fossi Stabbio e San Martino potrebbe essere più che compensato con interventi che incrementino l’infiltrazione nelle vicine colline terrazzate e nel rilevato incolto(32)In questo specifico caso, essendo il rilevato una vecchia discarica di inerti e altri rifiuti, occorrono indagini preliminari per la caratterizzazione del sottosuolo e, secondo i risultati, può rendersi necessaria la bonifica. situato tra il ponte dello Stabbio (sul quale passava l’ex ferrovia marmifera) e il parcheggio dell’ex stazione ferroviaria (poi sede del tribunale e oggi di uffici comunali).

In quest’ultimo caso si potrebbe anche sfruttare (riattivandolo) il canale Mercurio (una delle vecchie gore) per creare una zona umida artificiale e per mantenere saturo il sottosuolo nei periodi asciutti, rendendo l’attuale terreno incolto un’area ad elevata evapotraspirazione con finalità plurime (mitigazione climatica, riduzione del rischio alluvionale, creazione di habitat ed eventuale fruizione ricreativa) (Fig. 5.15).
 

Fig. 5.15. A: esempi di possibili misure di mitigazione dell’impatto idraulico e idrologico della tombatura dei canali. 1) Potenziamento dell’infiltrazione delle acque piovane nei pendii terrazzati collinari (cfr. Fig. 5.7); 2) dossi per la detenzione temporanea e l’infiltrazione idrica nel suolo (potenziata dall’utilizzo irriguo della vecchia gora Can. Mercurio); 3) creazione di una zona umida per la ritenzione idrica. B: stralcio della carta dei fossi demaniali (ex gore): in verde il tracciato (sotterraneo) del canale Mercurio che potrebbe essere riattivato per l’alimentazione idrica dell’area; l’area gialla corrisponde al rilevato con copertura erbacea visibile in A e C. C: sommità del rilevato con copertura erbacea. D: esempio di uno stagno di ritenzione idrica. E e F: foto e schema di un’area di infiltrazione idrica nel suolo. Fonti: A: foto satellitare Google Earth, proposte Legambiente Carrara; B: carta Prov. Massa Carrara; C: Legambiente Carrara; D:https://www.saskatoon.ca/; E: Gibelli et al., 2015. Gestione sostenibile delle acque urbane. Manuale di drenaggio urbano. Reg. Lombardia, Ersaf. Milano; F: www.susdrain.org

 
 

5.6       Creare una “città spugna” sfruttando le vecchie gore

 

Si è appena visto che la riattivazione della vecchia gora (Canale Mercurio) permetterebbe il massimo potenziamento del bacino di ritenzione e dell’area di infiltrazione idrica da realizzare nel rilevato situato tra San Martino e lo Stabbio.

È dunque facile comprendere che la riattivazione del vecchio sistema di gore sarebbe uno strumento formidabile per realizzare su larga scala l’infiltrazione idrica nei suoli, facendo di Carrara una “città spugna” con i relativi benefici: elevata evapotraspirazione, miglioramento del microclima (minor afa estiva), riduzione degli allagamenti durante le piogge, ricarica dell’ac­quifero, riduzione delle inondazioni e maggior disponibilità idrica nei periodi siccitosi. La città spugna, congiuntamente alla montagna spugna, fornirebbe a Carrara più benessere e più sicurezza.

Carrara è dotata di un esteso reticolo di gore, oggi dismesse, che si dipartono capillarmente dai Canali Mercurio, Levatella, Nazzano e Turigliano, utilizzate fin dal XIX secolo a fini irrigui e di forza motrice per mulini e segherie di marmo (Fig. 5.16).
 

Fig. 5.16. A: tracciato (in massima parte sotterraneo) delle principali gore ad uso irriguo e di forza motrice (mulini, segherie di marmo), dalle quali si dipartono innumerevoli canaline di servizio per le utenze. B: presa idrica (con iscrizione 4/6/1866, oggi dismessa) della gora Mercurio dal F. Carrione, poco a monte del ponte di San Martino. C: metà di una ruota idraulica a servizio delle segherie di marmo esposta presso lo showroom del laboratorio Furrer ad Avenza.

 
Grazie all’ampiezza del territorio servito e alla capillare diffusione delle canaline per le utenze, la riattivazione del sistema di gore permetterebbe di dar loro nuova vita e la nuova funzione di alimentare numerose aree di infiltrazione idrica nel suolo.

Oltre ai benefici poc’anzi citati le gore, in occasione delle piene, potrebbero sottrarre dal Carrione portate non indifferenti (recapitandole in aree di infiltrazione) contribuendo direttamente alla riduzione del rischio alluvionale.
 
 

5.7       Basta crisi idriche estive: per la città spugna, acquiferi e ravaneti spugna

 

È doveroso chiedersi dove saranno attinte le acque per alimentare le gore nei periodi siccitosi o, comunque, nei periodi di magra del Carrione. A questa domanda risponde l’intero approccio del nuovo paradigma dell’acqua, centrato sulla sua conservazione.

In effetti, sebbene le scarse piogge estive siano un fenomeno naturale, la scarsità idrica è in buona parte frutto proprio del nostro attuale approccio: è infatti evidente che, quando nei periodi piovosi facciamo di tutto per gettare via (a mare) le acque in eccesso (anziché conservarle per i periodi di scarsità), stiamo preparando con le nostre mani l’accentuazione delle crisi idriche estive.

Ma, se volessimo cambiare approccio, dove potremmo immagazzinare le acque che riceviamo nei periodi di abbondanza? La risposta classica è quella di costruire grandi bacini di raccolta (mediante dighe, stagni agricoli ecc.), ma perché mai dovremmo consumare spazio e sostenere forti spese quando a tal fine abbiamo già a disposizione bacini ben più grandi (gli acquiferi sotterranei)(33)Si veda: Baldaccini e Sansoni, 2020. Contro la siccità: più invasi o più buonsenso? Biologia Ambientale, 34: ca 4-7 (2020). (L’articolo può essere richiesto agli autori). che, oltre ad essere gratuiti, fornirebbero acqua di ottima qualità, grazie alla filtrazione nel terreno e al suo potere autodepurante (Tab. 5.1)?

 
Tab. 5.1. Azione autodepurante del terreno nei confronti di diversi inquinanti. Fonte: Sansoni, 1991. Il bacino del Magra: mappaggio biologico del reticolo idrografico, sintesi ecologica, problematiche ambientali, proposte di risanamento. Tesi laurea Sc. Naturali, Univ. Pisa.

Inquinante Azione
Batteri I microrganismi presenti in un liquame riversato sul suolo sono trattenuti dai granuli minerali per filtrazione meccanica, per le forze di attrazione (elettrostatiche, idrofobiche…) e, soprattutto, per adesione alla pellicola biologica naturale che li riveste (costituita da batteri, funghi, protozoi, alghe, micrometazoi e dalle loro secrezioni gelatinose). I microrganismi di origine animale, patogeni e non, così intrappolati, giungono poi a morte per le condizioni ambientali ad essi sfavorevoli (concentrazioni ioniche, pH, temperatura, carenze nutritive, ormoni, antibiosi, predazione, azione di batteriofagi, competizione). Le capacità filtranti e assorbenti del terreno nei confronti dei microrganismi sono praticamente illimitate (Smith et al., 1985); solo terreni con un reticolo sviluppato di macropori intercomunicanti (es. per scarsità di frazioni granulometriche fini, o suolo molto sottile su roccia fessurata) permettono l’infiltrazione nel sottosuolo di una frazione di acqua batteriologicamente non depurata.
Sostanza
organica
Nella zona di areazione del terreno la sostanza organica disciolta viene demolita e mineralizzata dai microrganismi eterotrofi, che la utilizzano a scopi plastici ed energetici. Anche la sostanza organica particolata, anch’essa trattenuta nei pori del terreno, subisce –sia pure con minor velocità– la stessa sorte di quella disciolta.
Sostanze
inorganiche
Gran parte delle sostanze inorganiche è trattenuta, totalmente o parzialmente, secondo la natura del suolo (specialmente del contenuto in minerali argillosi, dotati di un’elevata capacità di scambio ionico) e delle condizioni fisico-chimiche (specialmente pH e potenziale redox) (Castany, 1982; Chiesa, 1984; CNR, 1982; Reg. Emilia Romagna, 1977).
Metalli Se la zona insatura è ben areata, alcuni metalli (Cu, Fe, Mn, Hg, Ni) possono formare ossidi insolubili. Nei terreni soggetti a massiccia irrigazione, invece, tale zona è quasi sempre in condizioni riducenti, che favoriscono l’insolubilizzazione totale o parziale –sotto forma di sali diversi– di Cu, As, Cr, Hg, Se, Ag, Pb. La riduzione batterica dei solfati può insolubilizzare sotto forma di solfuri molti metalli: Ag, Cd, Cu, Fe, As, Pb, Hg, Mo, Ni, Zn. Altri (Ba, Cd, Cu, Pb, Hg, Zn) vengono precipitati dai carbonati; Ba, Cd e Pb anche dai solfati; As da Fe, Al e Ca; Fe dalla silice; Mo da Fe e Al).
Anioni
(nitrati,

fosfati ecc.)
I fosfati sono adsorbiti in terreni acidi dagli ossidi di Fe e Mn e possono poi trasformarsi, molto lentamente, in composti insolubili; in terreni calcarei, invece, precipitano rapidamente come fosfato di calcio. I solfati solubili possono essere ridotti ad idrogeno solforato gassoso. Nitrati, fosfati ed altri composti (compresi molti metalli) possono essere assorbiti e assimilati da parte dei vegetali. Solo i cloruri e, parzialmente, i nitrati e i solfati, possono attraversare il terreno senza essere adsorbiti o trasformati.
Composti
vari
Moltissimi composti organici e inorganici (e anche microrganismi) sono in gran parte “sequestrati” dalle acque di infiltrazione e adsorbiti alla superficie delle particelle minerali per l’azione di forze elettrochimiche e subiscono poi vari destini (Rheinheimer, 1980).

 
Va inoltre ricordato che la realizzazione dei ravaneti spugna da noi proposti garantirebbe anche una rilevante ricarica degli acquiferi carsici montani che, a loro volta, alimentano sia le sorgenti captate ad uso idropotabile sia quelle libere (che alimentano i corsi d’acqua e quindi, a loro volta, consentirebbero l’alimentazione estiva delle gore). Merita soffermarsi a spiegarne la ragione.

Data l’elevata pendenza e lo spessore di suolo estremamente limitato, le acque piovane cadute nel bacino montano roccioso scorrono velocemente in superficie raggiungendo i corsi d’acqua. Una parte di esse, tuttavia, incontrando le sottili fratture del marmo, vi penetra, saturandole; laddove presenti, penetrano anche (in maggior quantità) nelle fratture beanti del reticolo carsico e rimpinguano l’acquifero, facendone innalzare il livello (superficie piezometrica) (Fig. 5.17). Alla fine anche queste acque riemergono in superficie, come sorgenti.
 

Fig. 5.17. A: fratture e condotti carsici esposti dal taglio (1-3); 4: parete ricoperta da concrezioni calcaree (esposta alla vista grazie al crollo lungo la superficie di frattura). B: altro condotto carsico intercettato dal taglio. C: dettaglio di B. D: superficie interna, con concrezioni, del condotto carsico n. 3 illustrato in A. E: parete e pavimento con numerose microfratture che alimentano il deflusso di base dell’acquifero: si noti che le fratture sulla parete proseguono sul pavimento, interessando l’intera massa rocciosa. (A-D: cava Bettogli; E: cava Boscaccio).

 
Poiché i bacini marmiferi di Carrara sono coperti da ravaneti (idrologicamente equivalenti a suoli di notevole estensione e spessore), questi assorbono grandi quantità di acqua che, in parte, riemergono in superficie al piede del ravaneto e, in parte penetrano nell’acquifero e riemergono dalle sorgenti. Dato che, oggi, le cave e i ravaneti sono pieni di marmettola e terre, le acque che li attraversano ne sono fortemente contaminate (Fig. 5.18); se, invece, fossero privi di materiali fini, ne riemergerebbero acque limpide.
 

Fig. 5.18. A: la sezione idrogeologica schematica illustra la circolazione carsica e le vie di penetrazione degli inquinanti. Le acque piovane penetrano nel reticolo carsico attraverso le fratture del marmo situate nei versanti (frecce blu), nelle cave (freccia nera), negli alvei (freccia arancione); quelle infiltratesi nei ravaneti (frecce rosse punteggiate) in parte penetrano nel sistema carsico (frecce rosse) e in parte riemergono al piede del ravaneto (freccia fucsia). B: scarpata al piede del ravaneto Canalgrande, ai Ponti di Vara. Al contatto col substrato roccioso (cerchio) riemergono acque fortemente torbide e lattescenti per l’elevato contenuto di marmettola (C): queste sono identiche a quelle che, infiltrandosi nelle fratture del substrato del ravaneto (frecce rosse nello schema A), raggiungono le sottostanti sorgenti delle Canalie. Naturalmente, se i ravaneti (e le cave) fossero puliti, ne riemergerebbero acque limpide.

 
Fatte queste premesse sull’alimentazione dell’acquifero carsico possiamo comprendere facilmente perché questa sia ben più abbondante e duratura in presenza di ravaneti. La spiegazione è banale: poiché le acque piovane penetrano nelle fratture carsiche quando le incontrano durante la loro (veloce) discesa lungo il versante roccioso, in assenza di ravaneto l’acquifero sarà alimentato per una durata all’incirca uguale a quella della pioggia.

In presenza di ravaneto, invece, la pioggia caduta su di esso (nonché quella proveniente dal versante sovrastante da esso intercettata) sarà assorbita dal ravaneto stesso, fino alla sua saturazione (che può richiedere parecchie ore). Quando l’acqua infiltratasi nel ravaneto raggiungerà il contatto col substrato roccioso, scorrerà su di esso (lentamente, dato l’elevato attrito) penetrando nelle fratture carsiche, e continuerà a farlo finché il ravaneto non avrà esaurito le acque accumulate: un processo che perdura da parecchi giorni a qualche settimana.

Il ravaneto, pertanto, funziona come un grande serbatoio che accumula tutta la pioggia, facendola poi scorrere lentamente al contatto col substrato, alimentando così l’acquifero per un tempo molto più lungo. Semplificando, nel nudo versante roccioso una pioggia della durata di sei ore alimenterà l’acquifero per circa sei ore, mentre nel versante coperto da ravaneto continuerà ad alimentarlo per alcune settimane.

In presenza di ravaneti, pertanto, le sorgenti che scaturiscono dall’acquifero assicurano più a lungo l’approvvigionamento idropotabile e la stessa portata dei corsi d’acqua, anche nei periodi asciutti. Ciò consentirebbe il prelievo di acque dal Carrione anche d’estate per alimentare le gore; quest’acqua, peraltro, non sarebbe sprecata ma –accumulata nel terreno e nell’acquifero di pianura– sarebbe poi rimessa in circolo producendo nuova evapotraspirazione (e mitigazione climatica delle “onde di calore” estive).

La comprensione dei meccanismi descritti rende ancor più evidente la necessità di realizzare i ravaneti spugna privi di marmettola e terre (trattati nel paragrafo 2.8) per evitare che la maggior alimentazione dell’acquifero sia accompagnata da un suo maggior inquinamento. I fenomeni illustrati sono schematizzati nella Fig. 5.19.
 

Fig. 5.19. Andamento dei livelli della falda alimentata dall’acquifero carsico in assenza di ravaneti (colonna a sinistra) e in loro presenza (colonna a destra); per rendere meglio apprezzabili le variazioni di livello della falda, è stata colorata in turchese l’area tra il livello “di emergenza” idrica (in tratteggio rosso) e il livello attuale (linea blu continua). A1 e B1: ipotetica situazione di partenza in cui il livello della falda è identico, con o senza ravaneto. A2 e B2: situazione al termine di un periodo piovoso. In assenza di ravaneto il livello è salito ma, in presenza di ravaneto, ha raggiunto il massimo. Si noti anche il ravaneto saturo d’acqua, che prolunga l’alimentazione del reticolo carsico (frecce larghe). A3 e B3: al termine di un periodo asciutto, l’acquifero è poco sopra il livello di magra (senza ravaneto); il ravaneto ha quasi esaurito l’acqua accumulata ma il livello della falda è ancora soddisfacente. A4 e B4: dopo un periodo asciutto prolungato (es. fine estate) l’acquifero è sotto il livello di magra e si avvicina pericolosamente al livello di emergenza; col ravaneto, invece, il tetto dell’acquifero è ancora al di sopra del livello di magra. Si noti che in tutte le situazioni (tranne quelle ipotetiche di partenza A1 e B1, poste appositamente come identiche), il livello dell’acquifero è sempre più elevato in presenza di ravaneto. Nota: gli schemi mostrano l’alimentazione idrica attraverso i condotti carsici (che genera le variazioni di livello più rilevanti e rapide); non mostrano l’alimentazione attraverso il reticolo diffuso di microfratture (simboleggiata dalle tre freccette rosse tratteggiate) che, pur essendo quantitativamente meno importante, assicura un apporto all’acquifero (sia pur minimo) anche nei periodi asciutti prolungati. Schemi: G. Sansoni, 2021.

 
È appena il caso di ricordare che la maggior disponibilità idrica derivante dai ravaneti spugna e dalle altre misure di ritenzione idrica naturale, oltre a permettere l’alimentazione delle vecchie gore per far infiltrare le acque nei terreni, ridurrebbe le crisi idriche estive che impongono limitazioni ai consumi.
 
 

5.8       Migliorare l’efficacia dei canali demaniali nelle cave (altro che sdemanializzarli!)

 

Restando nel bacino montano e in tema di canali, merita un cenno l’intensa attività politica e amministrativa di questi mesi volta a sdemanializzare i fossi montani (solitamente asciutti) situati all’interno delle aree estrattive.

La vicenda è del massimo interesse, sia per le importanti ripercussioni concrete sul rischio alluvionale, sia perché mostra in maniera illuminante (come in un docufilm in diretta) il funzionamento concreto della “fabbrica del rischio alluvionale”.

Va premesso che nei bacini marmiferi il reticolo idrografico minuto (solitamente asciutto) che raccoglie le acque durante le precipitazioni è stato profondamente sconvolto dall’attività estrattiva.

Questi fossi sono ben visibili anche a grande distanza, fin dalle vallecole più elevate, poiché, data l’elevata pendenza, in occasione delle piogge la portata idrica è più che sufficiente a ripulire l’alveo dai detriti provenienti dalla disgregazione delle rocce operata dagli agenti atmosferici (vento, pioggia, azione del gelo/disgelo) che vengono perciò facilmente trasportati a valle.

Nei bacini marmiferi, tuttavia, la fonte naturale di detriti è di gran lunga superata da quelli scaricati dalle cave. Pertanto, non appena attraversano i bacini marmiferi, questi fossi divengono invisibili poiché sepolti dai detriti riversati dalle cave in quantità spropositate (migliaia di volte superiori alla fonte naturale di detriti) e di gran lunga superiori alla capacità di trasporto delle acque (Fig. 5.20 e 5.21).
 

Fig. 5.20. Già a partire dal crinale, sono perfettamente visibili le vallecole il cui fondovalle accoglie l’impluvio di testa dei fossi montani (il cui tracciato è indicato dalle sottili linee turchesi). Non appena raggiungono le aree estrattive, i fossi scompaiono alla vista poiché sepolti da imponenti quantità di detriti di cava. Diviene pertanto impossibile individuare il percorso dei fossi sepolti (salvo ricorrere alle vecchie mappe catastali).

 

Fig. 5.21. Reticolo idrografico dell’alto bacino di Torano, profondamente alterato dalle attività estrattive. A: (dal geoportale LAMMA): in azzurro il reticolo idrografico visibile. La maggior parte del reticolo idrografico è rappresentata da tratti in giallo classificati “da approfondire” poiché il loro reale percorso non è visibile: in massima parte, però, si tratta di vie d’arroccamento sulle quali scorrono le acque piovane poiché gli alvei originari sono stati asportati dalle cave o sepolti dai loro detriti. B: (dal catasto riportato nel portale Geoscopio): in azzurro i mappali catastali dei fossi demaniali. Le differenze tra i due geoportali sono veramente notevoli. Il raffronto tra A e B permette di individuare il percorso dei fossi oggi non più visibili sul campo. C: ingrandimento del riquadro blu di A e B. È evidente che sui mappali dei fossi Moretto e Battaglino (del tutto assenti in A) oggi insistono i ravaneti o direttamente i gradoni di cava. D: la foto mostra chiaramente l’alterazione dei fossi da parte dell’attività estrattiva. In turchese punteggiato i fossi demaniali invisibili perché sepolti da detriti di ravaneto; in giallo punteggiato il tracciato del fosso completamente asportato dalla cava Battaglino; in tratteggio turchese il tratto del fosso Moretto sepolto da detriti, ma il cui tracciato approssimativo è ancora percepibile alla vista. Fonti: A:Geoportale LAMMA, Regione Toscana. B e C: Regione Toscana, Geoscopio, Catasto Urbanizzazione. D: Legambiente Carrara.

 
Sebbene l’entità delle piene del Carrione sia condizionata in maniera determinante dallo stato del bacino montano e del suo reticolo idrografico (come si è visto nei cap. 2-Idrologia e 3-Idraulica), da sempre le amministrazioni comunali succedutesi hanno dimostrato una profonda indifferenza alle sue ripercussioni sul rischio alluvionale tanto che, nelle autorizzazioni all’escavazione, hanno addirittura espressamente previsto l’utilizzo delle fosse demaniali per lo scarico dei detriti di cava e per realizzare la relativa viabilità.

Finalmente, con l’approvazione dei PABE (2020), considerato che il demanio idrico è di competenza regionale, il Comune ha disposto (art. 33, comma 5) che, qualora il progetto di escavazione interessi elementi del reticolo idrografico, la cava dovrà chiedere alla Regione la concessione per l’utilizzo dei mappali appartenenti al demanio idrico.

Ben presto si presenta il primo caso: la cava Polvaccio avanza una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ed emerge così l’occupazione sine titulo del fosso demaniale. L’autorizzazione viene sospesa ma diviene subito chiaro che la portata del problema è enorme, visto che gran parte delle cave è in una situazione del tutto analoga e rischia pertanto la sospensione dell’attività.

Inizia così una fitta serie di incontri che coinvolgono la Regione (settori Cave, Ambiente, Demanio idrico), il Comune, i sindacati e Confindustria. Vengono prospettate due soluzioni: la sdemanializzazione (eliminare dal demanio i fossi che, per le trasformazioni subite, hanno perso la loro originaria funzione; le relative aree diverrebbero di competenza comunale) e/o la fissazione di un canone d’occupazione (da versare al demanio regionale).

Legambiente, nel richiamare l’attenzione sulle finalità irrinunciabili del demanio idrico (stabilite da secoli), tra le quali “garantire il buon regime delle acque, prevenire e mitigare i fenomeni alluvionali”, ritiene irresponsabili entrambe le soluzioni prospettate (poiché, implicando la rinuncia alla mitigazione delle alluvioni, comporterebbero un rischio alluvionale accresciuto) e invita gli enti a recedere dalla loro attuazione.

Propone, invece, una soluzione che consenta alle cave di continuare a lavorare, ma con la prescrizione di risistemare in forma di ravaneti spugna i detriti che hanno sepolto i fossi demaniali. In questo modo, infatti, non solo si rispetterebbe, ma si potenzierebbe la finalità del demanio idrico di ridurre il rischio alluvionale.

La proposta non viene nemmeno presa in considerazione e, alla fine, si decide per la sdemanializzazione, alla quale gli uffici regionali stanno lavorando (si prevede che la pratica richiederà un anno, anche per le necessarie verifiche topografiche su un territorio la cui geomorfologia è completamente sconvolta).

Abbiamo così visto in diretta un caso da manuale del funzionamento della fabbrica del rischio alluvionale, con tutti i suoi ingredienti: imprenditori e sindacati chiedono di salvaguardare l’attività estrattiva e, prontamente, comune e regione indossano i paraocchi focalizzandosi su quel solo problema senza tener in alcun conto né i richiami al loro dovere istituzionale (di evitare l’incremento del rischio alluvionale che deriverebbe da quella scelta foriera di sciagure) né la soluzione proposta da Legambiente, sebbene questa salverebbe capra e cavoli.

Un vero paradosso: mentre un ufficio regionale (settore difesa del suolo) sta eseguendo i lavori del masterplan del Carrione per ridurre il rischio, un altro ufficio della Regione stessa, considerato che la funzione protettiva del demanio idrico è stata compromessa dagli sconvolgimenti morfologici indotti dall’escavazione, si limita a prenderne atto, rinunciando per sempre a tale funzione e vanifi-cando in partenza i lavori di mitigazione del rischio.

Legambiente ha sollecitato Regione e Comune a un radicale ripensamento e ravvedimento, tenuto anche conto che la scelta intrapresa è in piena contraddizione con la strategia del masterplan del Carrione adottata dalla Regione stessa.
 
 

5.9     Far infiltrare nel suolo l’acqua dei tetti

 

Per evitare l’allagamento delle strade ad ogni pioggia e i conseguenti disagi al transito pedonale e automobilistico, in tutte le città le acque piovane cadute sui tetti sono raccolte nelle grondaie e convogliate, attraverso i pluviali, in fognature bianche che le recapitano rapidamente al più vicino corso d’acqua (Fig. 5.22A, B e C).

Questa pratica, considerata giustamente una delle conquiste della civiltà, ha però alcuni inconvenienti: impedendo l’infiltrazione nel suolo delle acque piovane, infatti, da un lato riduce la ricarica dell’acquifero e, dall’altro, incrementa le portate nei corsi d’acqua proprio quando questi sono già in piena. Se pensiamo alle migliaia di tetti di una città, è facile comprendere perché questo contributo aggravi in modo significativo il rischio alluvionale.

Ma si comprende anche che, gettando via le acque quando sono in eccesso (anziché conservarle per i periodi di penuria), rendiamo il suolo progressivamente sempre più asciutto e “fabbrichiamo” inconsapevolmente le crisi idriche estive che ci impongono limitazioni al consumo e accentuano il riscaldamento nelle isole di calore urbano, peggiorando la qualità della vita.

Senza contare che questa pratica, essendo largamente diffusa a livello mondiale, dà un considerevole contributo al riscaldamento globale e all’intensificazione degli eventi meteorologici estremi (inondazioni, siccità, incendi), come spiegato nel par. 4.6.

È pertanto una semplice questione di buonsenso e di convenienza evitare, sì, l’allagamento delle strade in occasione delle piogge, ma adottando accorgimenti per recapitare queste acque nel suolo anziché nei corsi d’acqua. Un semplice accorgimento sta nel recapitare le acque dei pluviali in letti assorbenti appositamente predisposti (Fig. 5.22 D).

È dunque necessario che l’amministrazione comunale ne prenda piena coscienza e, attraverso regolamenti e incentivi, dia il suo insostituibile contributo per adottare su tutto il territorio questo tipo di accorgimenti.
 

Fig. 5.22. Pontecimato: le acque raccolte dai tetti vengono convogliate nei pluviali (A), recapitate nelle fognature bianche (B, freccia bianca) e poi al Carrione (C). La freccia gialla indica un chiusino della fognatura nera. D: schema di un letto assorbente per raccogliere le acque dei pluviali e consentirne l’infiltrazione nel suolo. Fonte: Kravčík et al., 2021.

 
 

5.10     Infiltrazione nel suolo, mediante giardini della pioggia

 

A differenza dei letti assorbenti, progettati per far infiltrare nel suolo tutta l’acqua caduta sui tetti, il fine primario dei giardini della pioggia (rain garden) è quello di assorbire l’acqua piovana (dai tetti o dalle pavimentazioni urbane) per poi rilasciarla gradualmente nel sistema fognario bianco, evitando così il superamento della sua capacità.

Concettualmente, dunque, sono dispositivi di rallentamento (e di filtrazione/depurazione) delle acque piovane che consentono di recapitarle gradualmente nelle fognature bianche, evitando di sottoporle a bruschi sbalzi di portata che ne superino la capacità di trasporto.

Tuttavia, poiché la raccolta delle acque cadute sulle superfici urbane e il loro rapido recapito nei corsi d’acqua accresce il rischio alluvionale, i giardini della pioggia danno anche un loro contributo alla sua riduzione.

I rain garden sono leggere depressioni (circa 30 cm) con un substrato –composto da sabbia, compost e terreno superficiale– dotate di un tubo di drenaggio forato che recapita nella fognatura(34)Il tubo di drenaggio che recapita nella fognatura è la loro differenza sostanziale rispetto ai letti assorbenti. Ciò non toglie che, pioché i tempi di drenaggio vengono allungati (fino a un massimo di 24-48 ore), durante questo periodo si verifichi anche una certa infiltrazione nel terreno. Le piante per i giardini della pioggia vanno scelte tra le specie autoctone che non soffrono allagamenti alternati a lunghi periodi di siccità e richiedono una manutenzione molto limitata.. Avendo un drenaggio, non sono costretti ad accumulare tutta l’acqua ricevuta e, pertanto, la loro realizzazione non richiede grandi spazi: possono così assumere l’aspetto di aiuole o di strisce erbose a bordo strada che rendono anche più gradevole l’ambiente urbano (Fig. 5.23).
 

Fig. 5.23. Alcuni esempi di giardini della pioggia. A: in un’area pubblica. B: in un giardino privato. C: particolarmente adatte ad essere convertite in giardini della pioggia sono le lunghe strisce erbose che corrono lungo le strade. D: schema costruttivo di un giardino della pioggia in pieno ambiente urbano. Fonti: A e D: www.planetasrl.net. B e C: www.codiferro.it/giardini-pioggia-soluzione-bombe-acqua.

 
 

5.11     Altre tecniche (ma, soprattutto, altri principi)

 

Le misure di ritenzione idrica naturale (NWRM) comprendono un campo sterminato di accorgimenti che vanno dai più semplici a quelli più ingegnerizzati (Fig. 5.24).
 

Fig. 5.24. Esempio di costruzione di bacini idrici sotterranei mediante moduli plastici capaci di sopportare carichi elevati. Con opportuni accorgimenti, possono essere utilizzati per l’accumulo e successivo riutilizzo, per la laminazione delle acque raccolte dalle superfici urbane o per la loro infiltrazione nel suolo. A e B: moduli strutturali del bacino. C: modulo dotato di tombino (arancione) dotato di caditoia di raccolta da porre a livello del suolo. D: fase di costruzione di un bacino di infiltrazione, posato su geotessuto). E: spaccato di un bacino di laminazione con “supertubi” interrati. Fonte: A-D: Wavin, 2015. Gestione acque meteoriche, Manuale tecnico (www.wavin.it). E: Comune di Reggio Emilia, 2014 (agg. 2020). Linee guida per la gestione delle acque meteoriche.

 
Non è pertanto possibile, né utile, dilungarsi a passare in rassegna il vasto ventaglio di accorgimenti adottabili: tetti verdi, barriere vegetate frangipiena, pavimentazioni drenanti, trincee d’infiltrazione, fitodepurazione seguita da infiltrazione ecc. (Fig. 5.25).
 

Fig. 5.25. Esempi di sistemi sostenibili di drenaggio urbano. A: tetto verde (Torino). B: pavimentazioni permeabili (grigliati in calcestruzzo inerbiti; masselli con fughe larghe inerbite; grigliati plastici inerbiti; masselli porosi). C e D: fosso dinfiltrazione combinato con sottostante trincea d’infiltrazione nella circonvallazione di Bolzano (schema costruttivo in C, realizzazione in D). Fonti: A: www.parcoartevivente.it. B: www.blueap.eu. C e D: Prov. autonoma di Bolzano-Alto Adige, 2008. Linee guida per la gestione sostenibile delle acque meteoriche.
 
 
Più che la conoscenza degli accorgimenti tecnici, infatti, ciò che è davvero fondamentale è superare la pigrizia mentale e mettere continuamente in discussione le pratiche basate sulle abitudini consolidate.

Non si tratta di negare i benefici derivanti dalle modalità finora utilizzate per migliorare la vivibilità urbana (pluviali, canalette stradali, fognature ecc.), ma di rendersi conto anche degli inconvenienti derivanti da questa strategia e di accettare la sfida intellettuale di come garantire gli stessi benefici eliminando però gli inconvenienti e, anzi, conquistando nuovi benefici in termini di sicurezza idraulica, miglioramento del microclima urbano e del paesaggio, miglioramento climatico (locale e globale, a breve e a lungo termine), disponibilità qualitativa e quantitativa delle risorse idriche ecc.

Principi guida fondamentali in questa sfida sono il rallentamento dei deflussi delle acque “in ogni centimetro” del loro percorso (dalla caduta delle acque meteoriche al loro recapito al mare), imparare a considerare le acque una risorsa da conservare (anziché da allontanare come fonte di fastidi), favorirne quanto più possibile l’infiltrazione nel terreno (riducendo il rischio alluvionale e accrescendo le risorse idriche) in modo da moltiplicare i piccoli cicli dell’acqua e il conseguente riutilizzo, contrastare il riscaldamento globale e gli eventi meteorologici estremi.

La nuova consapevolezza fornita da questi principi guida è un formidabile strumento mentale sia per individuare a colpo d’occhio gli aspetti controproducenti degli innumerevoli dispositivi fino a ieri considerati la miglior soluzione alla disciplinata regimazione delle acque, sia per stimolare la ricerca di correttivi che, conservandone i vantaggi, ne eliminino gli svantaggi (Fig. 5.26).
 

Fig. 5.26. Esempi di dispositivi per il rapido allontanamento delle acque dalle scarpate (A, in tegoloni embricati in cemento) o dai versanti (B, in corrugato metallico semicircolare), largamente impiegati proprio per la loro efficienza idraulica. Alla luce dei principi guida esposti, si coglie immediatamente l’aspetto controproducente di simili dispositivi (l’accelerazione dei deflussi e il conseguente incremento del rischio alluvionale). Ciò costituisce un forte stimolo a immaginare soluzioni alternative che, pur garantendo lo scolo delle acque, non ne comportino l’accelerazione. Si può pensare, ad esempio, a canaline di sezione ben più larga, dotate di elevata scabrezza, con lieve pendenza (quindi con andamento a zig-zag lungo il versante, anziché lungo la linea di massima pendenza), con fondo permeabile e con pozzi di infiltrazione ecc. Fonti: A: www.rotondiprefabbricati.it. B: foto Legambiente Carrara (Can. di Pescina).

 
 

5.12     Integrare più misure, a tutte le scale di applicazione

 

Sebbene ogni misura di ritenzione naturale delle acque e ogni sistema di drenaggio sostenibile dia il suo contributo al miglioramento della gestione delle acque e della vivibilità urbana, i risultati migliori si ottengono con il ricorso alla combinazione di più accorgimenti, secondo una progettazione accurata.

In tal modo è possibile riconvertire intere città (gradualmente, ma secondo un piano coerente) con una gamma di interventi che vanno dalla scala della singola abitazione a quella della pianificazione urbanistica (Fig. 5.27).
 

Fig. 5.27. Diverse scale di applicazione dei sistemi di dreanaggio urbano sostenibile, dalla singola abitazione alla pianificazione urbanistica. Fonte: Huber J., 2010. Low Impact Development: a Design Manual for Urban Areas. (da www.iridra.eu/it).

 
 
 

 
 
 

6.   CONCLUSIONI

 


 

6.1       La fabbrica del rischio alluvionale: analisi psicopatologica

 

In questo manuale, pur certamente non esaustivo, sono state esposte con dovizia di esempi alcune delle mille modalità concrete nelle quali può manifestarsi la fabbrica del rischio alluvionale.

Particolarmente illuminante è l’esempio (oggi in piena fase di attuazione, ma che non disperiamo di riuscire a fermare) della sdemanializzazione delle fosse di cava (par. 5.9).

Perfino il cittadino privo di ogni competenza in materia, infatti, comprende che le fosse montane rivestono un ruolo importante nella formazione delle onde di piena e che, pertanto, agli effetti del rischio alluvionale, il loro stato (con alveo libero, oppure sepolto da detriti di cava) non è certo indifferente.

In ogni caso, nessun amministratore o politico di Carrara può addurre ad alibi la propria ignoranza in materia, visto che l’argomento è stato chiaramente trattato nella relazione Seminara(35)G. Seminara, M. Colombini e coll., 2016. Studio idraulico del Torrente Carrione con analisi dei possibili interventi per la mitigazione del rischio. DICCA Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica e Ambientale Università di Genova. (che ha avuto larga eco e suscitato un ampio dibattito in città), che raccomandava tra l’altro la rimozione delle terre, almeno dallo strato superficiale dei ravaneti, pena il rischio di vanificare gli interventi del masterplan per mettere in sicurezza il Carrione.

Per gli esperti comunali e regionali di gestione del territorio, difesa del suolo, demanio idrico, infine, la piena consapevolezza delle problematiche è assolutamente certa e non può minimamente essere messa in discussione.

È altrettanto chiaro che la sdemanializzazione delle fosse interessate dalle attività estrattive implica la rinuncia alle funzioni del demanio idrico tra le quali, in primo luogo, la mitigazione delle alluvioni.

È dunque veramente incredibile che gli uffici regionali abbiano compiuto la scelta della sdemanializzazione, addirittura in pieno contrasto con gli interventi idraulici sul Carrione che la Regione stessa sta attivamente attuando a seguito dell’alluvione del 5 novembre 2014. Ed è altrettanto incredibile che gli amministratori di Carrara abbiano caldamente sostenuto tale scelta, pur consapevoli di scaricare sui propri concittadini un rischio alluvionale accresciuto.

Non essendo ipotizzabile l’attenuante dell’ignoranza, le ragioni del nuovo crimine idraulico in corso di compimento vanno ricercate altrove. Da come si sono svolti i fatti e dalle motivazioni espressamente addotte non possiamo che ritenere che risiedano nella priorità data a risolvere il problema della cava Polvaccio (nonché delle molte altre che, trovandosi nelle stesse condizioni, in seguito sarebbero state coinvolte).

Ecco dunque scattare il tipico funzionamento della fabbrica del rischio alluvionale: si affonta il problema di assicurare la continuità lavorativa della cava con un’ottica monobiettivo. Si indossano così i paraocchi e si persegue quell’unico scopo (vista la sua urgenza), sacrificando alla priorità prescelta ogni altro obiettivo, compresa la sicurezza idraulica (probabilmente confidando che l’alluvione non è certo che si verifichi realmente e a breve termine e che, comunque, si potrà attribuire la colpa a una precipitazione “eccezionale”).

Superfluo dire che nessuna città merita amministratori così imprevidenti e talmente irresponsabili da non prendere nemmeno in considerazione la proposta di Legambiente (dei ravaneti spugna) che, pure, avrebbe ugualmente assicurato la continuità lavorativa alle cave riducendo al contempo (anziché aumentarlo) il rischio alluvionale.
 
 

6.2       La soluzione? Urge una rivoluzione culturale!

 

Forse la spiegazione del perché la grande maggioranza delle amministrazioni locali funziona come una fabbrica del rischio alluvionale è più semplice di quanto si immagini e sta nel fatto che è organizzata in assessorati e settori di intervento, nessuno nei quali si occupa di tale rischio.

Gli interventi di difesa del suolo, infatti, sono solitamente affidati a consorzi di bonifica con il vincolo (esplicito o implicito) che debbano intervenire per “domare” i corsi d’acqua affinché questi non arrechino fastidi alle altre attività (residenziali, artigianali, turistiche ecc.), considerate prioritarie.

È ora di superare questa mentalità ristretta e di prendere esplicitamente atto che la sicurezza idraulica è un prerequisito della stessa vivibilità urbana (e agricola), al pari delle infrastrutture urbanistiche, e deve perciò ricevere la massima attenzione.

Ciò richiede che ogni intervento di tipo urbanistico, infrastrutturale o dei servizi (edificazione, viabilità, fognature ecc.) sia non solo sottoposto a una verifica di compatibilità con la sicurezza idraulica, ma che sia espressamente progettato per dare il massimo contributo possibile alla riduzione dell’attuale rischio alluvionale.

Dato l’elevato grado di compromissione della situazione attuale, inoltre, è indispensabile rivisitare con tale ottica l’attuale organizzazione del territorio per pianificarne il riadattamento, ricorrendo alla giusta combinazione di misure necessarie, in particolare a quelle di ritenzione naturale delle acque.

A tal fine è indispensabile una vera e propria rivoluzione culturale (per la quale il presente manuale fornisce alcuni spunti). A livello operativo può rivelarsi particolarmente utile la creazione di un ufficio comunale che:

  • verifichi la situazione delle infrastrutture e la gestione delle acque meteoriche dal punto di vista della loro sostenibilità;
  • studi le esperienze più avanzate a livello nazionale e internazionale;
  • individui le misure più efficaci e più facilmente applicabili al proprio territorio;
  • sensibilizzi gli altri uffici comunali ad adottare tali misure per i nuovi insediamenti e per la riconversione di quelli già esistenti;
  • verifichi che ogni intervento pubblico o privato non solo non sia in contraddizione, ma migliori il rischio alluvionale e la vivibilità urbana e dia il suo contributo al miglioramento climatico;
  • sia fortemente aperto alla partecipazione di singoli e associazioni, stimolandola e cercando di mettere in pratica le migliori soluzioni emerse.

Legambiente assicura la propria collaborazione costruttiva a tale processo dal quale –crediamo fortemente– la città non potrebbe che trarre grandi benefici.

Ma la partecipazione non basta chiederla: come ogni forma di democrazia, infatti, va conquistata ogni giorno. Occorre dunque che la lotta per fermare la fabbrica del rischio alluvionale entri a pieno titolo tra le priorità anche delle associazioni (ambientaliste, culturali, di categoria, sindacati ecc.) e dei giovani.

Particolari speranze riponiamo nella generazione Greta, sia per la sensibilità e l’impegno dimostrati per la difesa del pianeta contro i cambiamenti climatici globali, sia per la sua consapevolezza che si tratta dell’autodifesa del proprio futuro.

Legambiente, con le proprie idee e proposte, sarà sempre al suo fianco. Questo manuale di autodifesa è stato concepito proprio come un contributo ad accompagnarla nel suo cammino, nonché per mettere in grado i cittadini di comprendere i meccanismi della fabbrica del rischio alluvionale, dando loro strumenti di lotta per fermarla con la competenza e la determinazione necessarie.
 
 



Per saperne di più:

Sulle alluvioni locali:

Fosse occupate dalle cave: Regione, Comune e Demanio preparano la prossima alluvione?  (6/4/2021)

Cave nelle fosse demaniali: rimediare agli abusi e fermare la fabbrica del rischio alluvionale  (27/2/2021)

Lettera aperta “alluvione e ravaneti spugna”: esperimento per increduli  (20/1/2021)

Resoconto terza escursione “sui sentieri della prossima alluvione”: bacino di Colonnata  (23/8/2020)

Resoconto seconda escursione “sui sentieri della prossima alluvione”: bacino di Miseglia  (16/8/2020)

Resoconto prima escursione “sui sentieri della prossima alluvione”: bacino di Torano  (9/8/2020)

Cave, ravaneti e rischio alluvionale  (VIDEO 2/2/2020)

Come ridurre il rischio alluvionale e salvare i ponti storici  (13/4/2019)

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Piani attuativi dei bacini estrattivi: una proposta di buonsenso (quindi rivoluzionaria)  (10/8/2016)

 Studio idraulico del Carrione (Relazione Seminara, marzo 2016) (10 MB)

Carrione: rivedere i calcoli, intervenire sui ravaneti, ripristinare gli alvei soffocati da strade  (31/03/2016)

Terre di cava nei ravaneti. La strategia del sindaco: alle cave l’impunità, ai cittadini l’alluvione  (19/03/2016)

Fermare la fabbrica del rischio alluvionale. Salvare i ponti intervenendo su ravaneti e strade in alveo  (16/03/2016)

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Alluvioni: le segherie di Carrara nel dossier “Effetto Bomba”  (18/6/2015)

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Carrara: le alluvioni procurate. Come difenderci  (VIDEO, 15/12/2014)

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Alluvione di Carrara: chiediamo scelte coraggiose (lettera a Rossi)  (12/11/2014)

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Dopo l’alluvione: cambiare prospettiva  (6/11/2014)

Riduzione del rischio idraulico: perché tante divergenze?  (25/3/2013)

Carrara: dopo l’alluvione serve un’idea sana di sviluppo (20/11/2012)

Interpellanza parlamentare: critiche ai lavori fluviali post alluvione sul Magra (3/7/2012)

Dopo l’alluvione: il Magra, scavato e “ripulito” è ora più pericoloso. Lettera-esposto di Legambiente (15/6/2012)

Alluvione nel basso Magra: vere e false soluzioni (VIDEO 28/1/2012)

Alluvione Lunigiana: cause e soluzioni (conferenza Sansoni) (VIDEO 10/12/2011) durata: 38′

Alluvione Lunigiana. Legambiente alle Regioni: basta alibi, stop al cemento (28/11/2011)

Aulla, l’alluvione prevista da Legambiente (VIDEO 7/11/2011)

Terre nei ravaneti: rischio di frana e alluvione (VIDEO 22/11/2011)

Aspettando la prossima alluvione: gli interessi privati anteposti alla sicurezza (26/3/2007)

In attesa della prossima alluvione: porre ordine alle cave (15/3/2007)

Alluvione Carrara: analisi e proposte agli enti (11/10/2003)

  Carrione, sicurezza e riqualificazione: un binomio inscindibile (Conferenza su alluvione: Relazione di Giuseppe Sansoni, 11/10/2003: PDF, 3,2 MB)

  Fenomeni di instabilità sui ravaneti (Conferenza su alluvione: Relazione Giuseppe Bruschi, 11/10/2003: PDF, 1,1 MB)

  Cave, ravaneti, alluvione: che fare? (Conferenza su alluvione: Relazione Piero Sacchetti, 11/10/2003: PDF, 37 KB)

 

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