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Regolamento agri marmiferi: l’ambiente dimenticato

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Nel precedente contributo (Regolamento agri marmiferi: tanti premi alle cave, ma poca occupazione) abbiamo evidenziato come la bozza di Regolamento, pur richiamando ripetutamente l’obiettivo di incrementare l’occupazione, sia giunto di fatto a perderlo di vista, subordinandolo agli interessi degli imprenditori.

In particolare, abbiamo criticato la scelta di fondo del Regolamento, poiché, anziché puntare agli obiettivi di interesse pubblico dettando condizioni e vincoli precisi per il rilascio delle concessioni, affida il loro raggiungimento a un ampio ventaglio di premialità offerto agli imprenditori, mettendo pertanto nelle loro mani (ovviamente secondo la convenienza propria, anziché della comunità) la scelta dei progetti da realizzare.

Nel presente contributo, invece, focalizziamo l’attenzione sugli obiettivi ambientali del Regolamento, dichiarati nell’art. 1:

  • utilizzo razionale e sostenibile delle risorse minerarie;
  • tutela delle risorse idriche superficiali e sotterranee (grazie all’adozione delle migliori pratiche);
  • tutela del paesaggio e degli elementi di rilevanza storica e archeologica;
  • salvaguardia della salute e della sicurezza delle popolazioni.

Va detto subito che si tratta di vuote dichiarazioni di principio: nessuno dei 25 articoli del Regolamento, infatti, contiene disposizioni riguardanti tali obiettivi. Evidentemente, il comune ha ritenuto sufficienti e soddisfacenti le disposizioni della LR 35/15, unitamente a quelle che ha fatto recepire nel Piano regionale cave (PRC) e a quelle dettate nei Piani attuativi dei bacini estrattivi (PABE).

Purtroppo, però, anche queste normative enunciano analoghi principi senza mai tradurli in disposizioni concrete, come abbiamo evidenziato nei nostri documenti:

Per esprimere un giudizio sugli indirizzi ambientali dell’amministrazione, dobbiamo pertanto basarci sulla sua politica complessiva sul marmo: sui PABE (di diretta emanazione comunale), sugli interventi del comune nella stesura del PRC e, per quanto riguarda il Regolamento, sulle sue omissioni. Possiamo anticipare che non avevamo immaginato di dover esprimere un giudizio così negativo.

Nonostante l’incapacità d’ascolto dimostrata dall’amministrazione, avanzeremo proposte volte a dare attuazione ai principi dichiarati. Nel caso di un loro mancato accoglimento, tuttavia, chiediamo almeno l’elimina­zione di tali principi dall’art. 1 del Regolamento. Riteniamo infatti inammissibili ipocrite enunciazioni di principi che, di fatto, non sono poi effettivamente perseguiti: è una semplice questione di coerenza e onestà di linguaggio.

 

1.       Utilizzo delle risorse minerarie: né razionale, né sostenibile

 

1.1    L’escavazione: finora è stata insostenibile
 

Il criterio più immediato ed efficace per valutare la sostenibilità dell’escavazione è la resa in blocchi: non sarebbe infatti certamente sostenibile (né razionale) sbriciolare le nostre montagne per ricavarne enormi quantità di detriti e pochi blocchi. Già nel 2007, infatti, il PRAER (All. 1, Elaborato 2, Parte II, punto 2.1) individuava una resa minima in blocchi di almeno il 25% della produzione complessiva (quindi detriti inferiori al 75%), per il cui rispetto imponeva verifiche su base annuale.

Nonostante le verifiche annuali, tale disposizione è stata sistematicamente violata dal 78% delle cave (si vedano ad es. Cave apuane: un decennio di illegalità, 1/6/16 e Cave, terre, detriti: ma è poi così difficile far rispettare le regole? 28/2/09), con una produzione di detriti superiore al 75% (in alcune superiore al 90%), senza che comune e regione battessero ciglio (Fig. 1).
 

Fig. 1. L’alto bacino di Torano:un esempio lampante di escavazione insostenibile. In caratteri blu sono riportate le percentuali medie di detriti prodotte da ciascuna cava nel periodo 2005-2017: dall’88,6% della cava Tecchione al 96,4% della cava Rutola.

 
La distruzione del monte per ricavarne grandi quantità di detriti e modeste percentuali di blocchi ha sollevato molte critiche e la richiesta di contingentamento dell’estrazione, sostenuta da più forze politiche e sociali proprio per contemperare la sostenibilità economica con quella ambientale e sociale.

 

1.2    Le nuove regole? Peggiori delle precedenti
 

La risposta della politica regionale e comunale è stata più che deludente. Già in partenza, infatti, il PRC non si è posto alcun obiettivo di contingentamento, ma ha confermato per i prossimi 20 anni un andamento della produzione pari a quella media del periodo 2013-2016 (PRC, documento PR14: La costruzione di scenari sulle quantità di estrazione in Toscana), per un fabbisogno totale di 41.561.650 m3 nel comprensorio apuo-versiliese.

A seguito delle pressioni di alcuni comuni e imprenditori, poi, tale criterio è stato abbandonato portando l’obiettivo di produzione “sostenibile” addirittura a 65.196.279 m3 (un aumento del 57%)!

Anche per il requisito della resa minima in blocchi necessaria per il rilascio della concessione, il PRC (art. 13, comma 2) era partito bene (innalzandola al 30%, rispetto al 25% del PRAER) ma, a seguito della richiesta dell’ANCI (capeggiata dal comune di Carrara), ha stabilito che i comuni possono riportarla al 25% (art. 13, comma 3) o, addirittura, al 20% nel caso di progetti specifici tesi a incrementare l’occupazione o la filiera corta (art. 13, comma 4).

Se consideriamo che a questo 80% di detriti vanno aggiunti il 3-5% derivante dai lavori di scoperchiatura (art. 3, comma 7), nonché le quantità derivanti da lavori di messa in sicurezza, qualunque esse siano (art. 3, comma 7), ci avviciniamo a considerare ammissibili quantità di detriti superiori all’85%.

Infine, come se non bastasse, il PRC ha previsto (art. 13, comma 6) che vengano computati come blocchi anche i detriti sottoposti a processi industriali (ad es. cementandoli con resine) per ricavarne prodotti sostitutivi dei materiali da taglio.

Così, anziché sfruttare in maniera virtuosa i processi industriali per recuperare e valorizzare le già spropositate quantità di detriti prodotte, il PRC ha scelto di consentire un ulteriore aumento della percentuale di detriti, aprendo per la prima volta alla possibilità di autorizzare anche cave di soli detriti!

Questo insieme organico e coerente di disposizioni illumina in maniera esemplare quanto le finalità originarie del PRC, partito con l’idea di esigere rese in blocchi superiori al 30%, siano state piegate e ribaltate giungendo ad ammettere percentuali spropositate di detriti. In questa corsa al peggioramento del PRC, il comune di Carrara ha partecipato sia come parte attiva (per l’introduzione dei commi 3 e 4) sia come parte consenziente (per gli altri commi).

La spudoratezza di queste norme del PRC adottato e dei PABE di Carrara suscita peraltro seri dubbi di legittimità, poiché in contrasto con l’indirizzo della normativa sovraordinata (PIT-PPR, Allegato 5, Norme Comuni) di «limitare quanto più possibile la produzione di inerti» e con il disposto del PRC stesso (art. 26, comma 5): «nell’individuazione dell’area a destinazione estrattiva, il comune tiene altresì conto: a) di uno sfruttamento razionale del giacimento; b) di valorizzare la risorsa lapidea privilegiando le porzioni di giacimento maggiormente produttive».

 

1.3    Cosa chiediamo
 

Chiediamo al comune di recedere dalla sciagurata disposizione di consentire rese in blocchi del solo 20%, introducendo nel Regolamento un’esplicita norma che revochi sul nostro territorio l’applicazione del comma 4 dell’art. 13 del PRC.

Dal lato operativo (rilascio delle autorizzazioni), tale revoca eliminerebbe almeno l’aspetto più scandaloso (sui piani simbolico e concreto) introdotto nel PRC: è dunque necessaria, ma ancora insufficiente. Deve infatti essere accompagnata, dal lato pianificatorio, da un chiaro segnale che si intende impedire l’esercizio di cave che producano percentuali spropositate di detriti.

Chiediamo pertanto al comune (anche per rispettare il disposto dell’art. 26, comma 5 del PRC) di rivedere i PABE adottati, escludendo fin d’ora dalle aree estrattive almeno le cave più scandalosamente insostenibili: quelle che dal 2005 a oggi hanno prodotto oltre il 90% di detriti. Ciò comporterebbe, ad esempio, l’esclusione dall’escavazione dell’intero alto bacino di Torano (compresa la cava Amministrazione, la più grande di tutte le Apuane).

Ci sentiamo in dovere di segnalare all’amministrazione comunale che l’eventuale conferma della scelta di aumentare la percentuale di detriti ammissibile (a fronte della situazione odierna, già scandalosa) non può che produrre una irreversibile radicalizzazione del conflitto sociale, conducendo alla richiesta della chiusura totale di tutte le cave, non solo di quelle comprese all’interno del Parco delle Apuane.

 

2.       Tutela delle risorse idriche superficiali e sotterranee

 

2.1    Il comune preferisce le acque sporche alle cave pulite
 

Su questo tema abbiamo presentato nel corso degli anni innumerevoli e approfonditi documenti; in questa sede, pertanto, saremo estremamente sintetici. Nonostante la particolare importanza del problema, abbiamo sempre riscontrato un netto rifiuto ad adottare misure efficaci e risolutive, sia da parte dei settori tecnici (uffici marmo e ambiente), sia da parte politica (sindaci e forze politiche).

Eppure la questione è molto semplice. Gli inquinanti delle acque di gran lunga prevalenti sono i materiali fini (marmettola e terre di cava) che, dilavati dalle piogge, possono seguire due destini: una parte scorre in superficie e va ad inquinare i corsi d’acqua recettori, mentre la parte restante si infiltra nelle fratture del marmo finendo per inquinare l’acquifero e le sorgenti da esso alimentate.

Poiché entrambi i destini provocano danno ambientale, la misura fondamentale per prevenirlo è elementare: tenere tutte le superfici di cava costantemente e scrupolosamente pulite, in modo che le acque meteoriche non incontrino inquinanti da trascinare a valle.

Purtroppo, le misure previste dai PABE e quelle prescritte nelle autorizzazioni rilasciate dagli uffici comunali si limitano a richiedere l’allestimento di alcuni dispositivi volti a contenere il problema (cordoli di contenimento delle acque di taglio, trattamento delle acque di lavorazione, vasche di sedimentazione ecc.), senza esigere né la loro efficacia né, soprattutto, la costante pulizia delle cave.

Si assiste così ovunque al paradosso di cave considerate perfettamente in regola (perché dotate di tali dispositivi), anche se sono invase da spessi strati di marmettola che inquinano le acque superficiali e sotterranee (a puro titolo d’esempio, si veda la Fig. 2).
 

Fig. 2. Le misure previste dai PABE (art. 28) non fanno altro che confermare quelle inefficaci già contenute nelle autorizzazioni. A che serve, ad esempio, confinare all’interno di un cordolo posto al piede del taglio le acque di lavorazione contenenti marmettola, se all’esterno di esso si tollerano spessi strati di marmettola? Continueremo dunque ad assistere al paradosso di cave formalmente in regola (poiché adottano le misure prescritte per evitare la dispersione della marmettola) anche se le superfici sono abbondantemente coperte da marmettola che, inevitabilmente, finirà per inquinare le acque superficiali e sotterranee. I due esempi illustrati riguardano la cava Canalgrande a cielo aperto (A) e in galleria (B). [La foto B è un fotogramma tratto dal video propagandistico della cooperativa Cavatori di Canalgrande: https://www.youtube.com/watch?v=_1mHI_YTDBw, criticato da Legambiente in: Cavatori Canalgrande: il video della fierezza è un’autodenuncia].

 

In poche parole, il comune ha scelto di accettare la prosecuzione a tempo indefinito dell’intorbida­mento da marmettola delle acque superficiali e sotterranee. Di fronte a questa realtà, pertanto, suona particolarmente beffardo l’obiettivo della «tutela delle risorse idriche superficiali e sotterranee, grazie all’adozione delle migliori pratiche» dichiarato nell’art. 1 del Regolamento.

Peraltro, ribadendo quanto abbiamo segnalato ripetutamente agli uffici comunali, riteniamo illegittime tutte le autorizzazioni all’escavazione finora rilasciate poiché non solo non rispondono all’ob­bligo di legge (D.Lgs. 152/2006) di prescrivere misure che evitino l’inquinamento delle acque, ma equivalgono di fatto a licenze ad inquinare.

Che l’assenza di misure efficaci sia una scelta pienamente consapevole e non una semplice dimenticanza, è testimoniato anche da piccoli dettagli, come la rimozione, ad opera di una “manina” a noi sconosciuta, della seguente parte del comma 9 dell’art. 25 (presente nella proposta di PRC e scomparsa in quello adottato): «… per ogni deposito dei derivati e dei residui dei materiali da taglio, i piani di coltivazione … dimostrano che … sia impedito l’inquinamento del suolo e delle acque di superficie e sotterranee, ciò con specifico riferimento alla marmettola prodotta dalle attività di cava e alla marmettola contenuta nei ravaneti sotto forma di polvere o di fango in quanto elemento contaminante del suolo, dei corsi d’acqua e delle falde».

 

2.2    Chiediamo un’ordinanza “cave pulite come uno specchio”
 

Chiediamo di introdurre nel Regolamento (ad esempio nella convenzione prevista dall’art. 9, comma 2), o tramite ordinanza sindacale, la prescrizione della pulizia costante e scrupolosa di tutte le superfici di cava, accompagnata da sanzioni realmente dissuasive per le inadempienze (sospensione dell’autorizzazione e, nelle recidive, sua revoca).

Considerata la pervicace resistenza degli uffici tecnici a tale misura, ritenuta impraticabile, facciamo presente che sono oggi disponibili macchine aspiranti per rimuovere la marmettola dai piazzali di cava.

 

3.       Tutela del paesaggio e degli elementi di rilevanza storica

 

3.1    Tutela paesaggistica: pregi e limiti
 

A questo tema il comune si è rivelato sensibile. Nei PABE, infatti, sono tutelati e accuratamente censiti gli elementi paesaggistici rilevanti: ZSC, ZPS, corridoi ecologici, cave storiche, antiche vie di lizza, emergenze geologiche, grotte, sorgenti, edifici di valore, percorsi della ex ferrovia marmifera, sentieri, crinali e vette ecc.

Un limite dell’approccio utilizzato, tuttavia, sta nel limitare la tutela ai singoli elementi, senza porsi l’obiettivo di riqualificare il contesto paesaggistico in cui essi sono inseriti. È evidente, ad esempio, che il contesto profondamente degradato del basso bacino di Ravaccione non è certo una cornice consona a favorire la fruizione culturale e turistica dei ben quattro elementi di rilevanza storica che ospita (Fig. 3).

 

Fig. 3. Bacino di Ravaccione. In rosso gli elementi tutelati: tre cave storiche (Collestretto, Amministrazione e Polvaccio-Ravaccione) e l’ex stazione della ferrovia marmifera. Il contesto paesaggistico profondamente degradato in cui sono inseriti (in giallo i ravaneti e le dscariche di terre) stride fortemente con l’obiettivo di fruizione turistica, culturale e didattica. Sarebbe come se i dipinti esposti negli Uffizi fossero ospitati in capannoni adibiti a deposito di immondizia.

 

Un altro limite rilevante sta nell’approccio passivo e rinunciatario: si tutelano alcuni elementi ben circoscritti ma non il paesaggio complessivo, accettando dunque come immutabile il profondo degrado in cui versa.

Riteniamo invece che una tutela attiva debba puntare alla riqualificazione paesaggistica d’insieme, risistemando i ravaneti e il reticolo idrografico e riportando alla luce le numerose cave che, con disprezzo per la testimonianza del lavoro umano, sono state sepolte perché utilizzate come discarica.

 

3.2    Chiediamo la riqualificazione paesaggistica dei bacini marmiferi
 

Al fine della riqualificazione paesaggistica dei bacini marmiferi chiediamo di:

  • introdurre nei PABE l’obiettivo di riqualificare il paesaggio complessivo dei bacini marmiferi, anche attraverso la risistemazione dei ravaneti e riportando alla luce le cave sepolte da discariche;
  • introdurre nel Regolamento, tra gli obblighi e condizioni cui il comune subordina il rilascio e il mantenimento della concessione (art. 9, comma 2, lettera n), prescrizioni puntuali per la risistemazione paesaggistica e idraulica dei ravaneti e per la rimozione dei detriti da cave che sono state sepolte da discariche.

 

4.       Sicurezza delle popolazioni: ridurre il rischio alluvionale

 

4.1    Ravaneti spugna: riconvertire i ravaneti da fattore di rischio a fattore di sicurezza
 

Tratteremo anche questo tema in maniera estremamente sintetica, avendolo già affrontato in numerosi e approfonditi documenti. Poiché l’argomento è ignorato nel Regolamento (salvo nell’art. 1, nella generica enunciazione di principio di “sicurezza delle popolazioni”), dobbiamo rifarci alle norme contenute nei PABE.

I PABE, infatti, mostrano piena consapevolezza delle potenzialità dei ravaneti di ridurre il rischio idraulico, attraverso l’immagazzinamento idrico (storage), il rallentamento dei deflussi e (se stabili) il minor apporto detritico agli alvei sottostanti.

Anche in questo caso, tuttavia, prevale un approccio rinunciatario: si tutelano alcuni ravaneti stabili e vegetati, ma non si coglie l’occasione per sfruttare al massimo le potenzialità che deriverebbero da un risanamento generalizzato dei ravaneti.

La loro conversione in ravaneti-spugna (rimozione integrale fino al substrato roccioso, ricostruzione con sole scaglie pulite e stabilizzazione, allontanando marmettola e terre) permetterebbe, infatti, di conseguire contestualmente diversi obiettivi della massima importanza:

  • riduzione del rischio alluvionale, grazie a:
    • riduzione della propensione al dissesto, interrompendo l’eccessivo apporto solido agli alvei (graduale o catastrofico) che ne riduce la capacità idraulica;
    • riduzione dei picchi di piena, grazie al rallentamento dei deflussi (conseguente all’as­sorbimento di acque meteoriche e all’attrito opposto al deflusso);
  • miglioramento della qualità delle acque superficiali e sotterranee, grazie alla rimozione di marmettola e terre dai ravaneti;
  • riduzione delle crisi idriche estive, grazie al maggior rimpinguamento dell’acquifero (con acque pulite!) conseguente al maggior tempo di contatto delle acque col substrato fratturato.

 

4.2    Recuperare bacini di laminazione svuotando le cave a fossa sepolte da discariche
 

I PABE individuano nelle aree estrattive le depressioni che possono svolgere la funzione di aree di immagazzinamento e ne vietano il riempimento finale, ben consapevoli che, accumulando acque piovane, contribuiscono a ridurre le piene.

Ancora una volta, tuttavia, l’approccio è rinunciatario: si limitano infatti a:

  • individuare come aree di immagazzinamento alcune minuscole vasche di sedimentazione poste al piede dei ravaneti, trascurando cave a fossa ben più grandi e capienti;
  • normare le cave attive, rinunciando a ridurre il rischio alluvionale mediante svuotamento delle cave dismesse che, utilizzate come discarica, sono state riempite di detriti (Fig. 4).

 

Fig. 4. Cava Trugiano: da cava a discarica. A: cava attiva ripresa dall’alto (2010): vi si accedeva attraverso un suggestivo passaggio tra due alte pareti di marmo (freccia gialla); il senso delle proporzioni è dato dai due escavatori nel piazzale. B:la stessa nel 2017, ridotta a discarica, a riempimento quasi completato.

 
Tenuto conto che sono stati colmati in tal modo invasi esistenti per circa 700.000 m3 (un volume vicino al milione di m3 previsto dallo studio Seminara per i nuovi invasi da realizzare), tale approccio rinunciatario è ingiustificabile, poiché testimonia uno scarso interesse per l’obiettivo di ridurre il rischio alluvionale.

 

4.3    Cosa chiediamo: prendere sul serio il rischio alluvionale da cave e ravaneti
 

Riteniamo che l’amministrazione comunale debba prendere piena consapevolezza che il rischio alluvionale si genera nel bacino montano ed è profondamente influenzato (negativamente) dalla gestione delle cave e dei ravaneti.

Chiediamo pertanto al Comune di:

  • progettare la realizzazione di ravaneti-spugna in tutti i bacini marmiferi, rimuovendo terre e marmettola, ricostruendoli con sole scaglie pulite e stabilizzandoli;
  • prescriverne la realizzazione concreta (con i relativi costi) alle cave, inserendola nel Regolamento tra gli obblighi previsti dalla convenzione di cui all’art. 9, comma 2;
  • stabilire per ciascuna cava la quantità annua di scaglie che non deve essere allontanata, ma impiegata nella realizzazione dei ravaneti-spugna rendendo così, anno dopo anno, sempre più sicura la città;
  • affidare alle cave attive (sempre tra gli obblighi della citata convenzione) la rimozione integrale dei detriti dalle cave a fossa e a pozzo che sono state sepolte da discariche;
  • estendere le aree di immagazzinamento idrico a tutte le cave (attive e dismesse) che presentino cavità utili a trattenere temporaneamente volumi d’acqua per la laminazione delle piene.

 

5.       Controlli e trasparenza dei dati

 

5.1    Controlli, resi meno frequenti e vincolanti
 

Abbiamo già evidenziato nel par. 1.1 come, nonostante i resoconti annuali dei materiali estratti da ciascuna cava, la resa minima in blocchi prevista dal PRAER (25%) sia stata sistematicamente violata dalla grande maggioranza delle cave.

Nel par. 1.2 abbiamo mostrato come le nuove regole (PRC, art. 13) abbiano reso ancor più insostenibile l’escavazione, ammettendo percentuali di detriti ancor più elevate (fino al caso limite di cave di soli detriti).

Assecondando il detto “non vi è limite al peggio”, il PRC (art. 14, comma 3) prevede che il comune verifichi le rese in blocchi ogni 5 anni e che, nel caso del loro mancato raggiungimento, la cava possa comunque proseguire l’attività per altri 4 anni. Con tale rarefazione dei controlli (da annuale a quinquennale), il quadro è così completo: si è deliberatamente scelto di consentire la distruzione della montagna, vanificando il principio di limitare quanto più possibile la produzione di inerti.

 

5.2    Cosa chiediamo: controlli efficaci e trasparenza
 

Ritenendo tali scelte un inaccettabile incitamento alla devastazione chiediamo che il Regolamento stabilisca:

  • controlli annuali della resa in blocchi per ciascuna cava, prevedendo, in caso di mancato raggiungimento della resa minima, di rientrarvi entro un anno, pena la decadenza dell’autoriz­zazione;
  • che i dati annuali sui quantitativi estratti da ciascuna cava sono di interesse pubblico prioritario (prevalente su ogni, per quanto pretestuoso, diritto alla privacy) e, pertanto, siano pubblicati annualmente sul sito del comune in maniera dettagliata e completa (numero e nome della cava, quantitativi di blocchi suddivisi per tipologia merceologica e produttiva e quantitativi di detriti suddivisi per provenienza: derivati d’estrazione, da lavori di scoperchiatura, da bonifica, da messa in sicurezza, ecc.), favorendo così il controllo e la partecipazione dei cittadini.

Carrara, 31 gennaio 2020
Legambiente Carrara
 



Per saperne di più:

Sulla disciplina delle cave: Regolamento agri marmiferi, piani attuativi bacini estrattivi, legge regionale cave, Piano regionale cave:

Regolamento agri marmiferi: tanti premi alle cave, ma poca occupazione  (14/01/2020)

Osservazioni al piano regionale cave: dov’è la sostenibilità ambientale?  (15/10/2019)

Osservazioni ai PABE. Tanti studi per nulla: un futuro uguale al passato  (16/9/2019)

Come si smantella il Piano Regionale Cave  (21/6/2019)

Osservazioni di Legambiente Toscana al Piano Regionale Cave  (18/6/2019)

Cave sostenibili? Solo con misure radicali! Osservazioni al rapporto IRTA  (20/4/2019)

Piani attuativi bacini estrattivi: quali indicatori di sostenibilità?  (25/10/2018)

Il bacino estrattivo di Torano: spunti per una pianificazione integrata  (3/5/2018)

Audizione alla commissione marmo: le proposte di Legambiente  (20/11/2017)

Nuovo regolamento degli agri marmiferi: le proposte di Legambiente  (28/11/2016)

Le nostre proposte per il Piano Regionale Cave  (10/10/2016)

Gestire in sinergia cave, ambiente e rischio alluvionale (2° contributo alla VAS dei piani attuativi estrattivi)  (24/9/2016)

Piani attuativi dei bacini estrattivi: una proposta di buonsenso (quindi rivoluzionaria)  (10/8/2016)

Marmettola: dalle cave alle sorgenti  (VIDEO 9 min. 24/7/2016)

Dossier marmettola: l’inquinamento autorizzato  (1/6/2016)

Revisione della legge regionale sulle cave: le proposte di Legambiente  (14/10/2014)

Osservazioni al piano paesaggistico: più paesaggio, più filiera, più occupazione, meno cave, meno impatto, meno rendita  (29/9/2014)

 Le nostre osservazioni alla proposta di legge regionale sulle cave (testo integrale, 17/7/2014, 236 KB)

Nuovo Regolamento degli agri marmiferi: la proposta Legambiente (G. Sansoni) (15/2/2013)

Agri marmiferi. Dal regolamento del 1994 ad oggi: problematiche e prospettive (I. Fusani) (15/2/2013)

Attività estrattive nel distretto del marmo: opportunità e criticità (F. Ferruzza)  (15/2/2013

Agri marmiferi, proposta di nuovo regolamento: introduzione (M. Antonioli) (15/2/2013)

Sulle problematiche tra cave, dissesto idrogeologico ed alluvione:

Come ridurre il rischio alluvionale e salvare i ponti storici  (12/4/2019)

Allarme terre di cava: il rischio alluvionale è aumentato!  (26/7/2018)

Incontro Legambiente-sindaco su cave e rischio alluvionale  (18/7/2017)

Gestire in sinergia cave, ambiente e rischio alluvionale (2° contributo alla VAS dei piani attuativi estrattivi)  (24/9/2016)

Carrione: rivedere i calcoli, intervenire sui ravaneti, ripristinare gli alvei soffocati da strade  (31/03/2016)

Come fermare la fabbrica del rischio alluvionale  (7/11/2015)

Come opera la fabbrica del rischio alluvionale (la bonifica dei ravaneti)  (24/10/2015)

Carrione: le proposte di Legambiente per il piano di gestione del rischio alluvioni  (7/7/2015)

Aspettando la prossima alluvione: gli interessi privati anteposti alla sicurezza (26/3/2007)

In attesa della prossima alluvione: porre ordine alle cave (15/3/2007)

  Fenomeni di instabilità sui ravaneti (Conferenza su alluvione: Relazione Giuseppe Bruschi, 11/10/2003: PDF, 1,1 MB)

Carrione, sicurezza e riqualificazione: un binomio inscindibile (Conferenza su alluvione: Relazione di Giuseppe Sansoni, 17/3/2006: PDF, 3,2 MB)

  Come le cave inquinano le sorgenti. Ecco le prove. Come evitarlo (Conferenza, relazione di Giuseppe Sansoni, 17/3/2006: PDF, 3,2 MB)

Alluvione Carrara: analisi e proposte agli enti (11/10/2003)

 

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