– Sindaco, Francesco De Pasquale
– Settore OO.PP., Urbanistica e SUAP, ing. Luca Amadei
– Settore Marmo, ing. Franco Fini
e p.c. ai soggetti competenti in materia ambientale:
Regione Toscana | Provincia di Massa Carrara | Ente Parco Regionale Alpi Apuane |
Comune di Massa | Comune di Sarzana | Comune di Fosdinovo |
Comune di Ortonovo | Comune di Fivizzano | ASL N. 1 di Massa Carrara |
IRPET – Ist. Reg. Programmaz. Economica | Uff. Tecn. Genio Civile Massa Carrara | Sopr. beni archit., Lucca e Massa Carrara |
Sopr. beni archeologici per la Toscana | ARPAT – Direzione regionale di Firenze | ARPAT – Dip. di Massa e Carrara |
GAIA spa | ATO Toscana Costa – Rifiuti | Toscana Energia |
Corpo Forestale Stato – Ispettorato generale | Autorità Portuale, Marina di Carrara | Camera di Commercio Massa Carrara |
Confartigianato Massa Carrara | Lega Coop. Toscana | FENEAL UIL Massa |
Società Speleologica Italiana | Consorzio Zona Industriale | IMM Carrara spa |
Associazione Industriali Massa Carrara | Assoc. Direttori e Progettisti di cava | CNA Massa Carrara |
CAI Carrara | CAI Commiss. Reg. TAM | Italia Nostra, Roma |
WWF Toscana | FAI Delegazione LU-MS | CGIL Massa Carrara |
FILCA CISL | Consorzio di bonifica Toscana Nord |
Oggetto: Piani attuativi dei bacini estrattivi (Carrara): terzo contributo alla VAS
1. Il futuro di Carrara si decide oggi
Prossimamente si deciderà il futuro di Carrara e del suo intero assetto territoriale: sono infatti in corso di redazione i piani attuativi dei bacini estrattivi (PABE) e il nuovo regolamento degli agri marmiferi; si dovranno scegliere gli interventi prioritari del masterplan del Carrione e del waterfront; è in fase di revisione il piano operativo comunale; dovrà essere avviata la revisione del Piano strutturale.
Due sono i principali rischi da evitare:
- l’elaborazione dei vari piani nel chiuso dei rispettivi uffici, magari col supporto di consulenti qualificati ma senza il coinvolgimento attivo e partecipato dei cittadini;
- l’assenza di una strategia comune per cui ogni piano è redatto autonomamente, senza confronti e sinergie o, addirittura, potenzialmente in conflitto con gli altri.
Il successo di ogni pianificazione deriva, infatti, dall’elaborazione di una chiara visione del futuro che vogliamo realizzare, seguita da scelte consapevoli e coerenti, ancor prima che dalle, ovviamente imprescindibili, competenze tecniche.
Occorre dunque prevedere la più vasta partecipazione al fine di raccogliere idee, esigenze, aspettative dei cittadini (singoli e organizzati); occorre far emergere da subito i conflitti tra gruppi sociali, valutare i pro e i contro di ogni misura e individuare, attraverso un’analisi multicriterio, soluzioni coerenti per il conseguimento del miglior rapporto costi/benefici (economico, ambientale e sociale).
Con il presente intervento intendiamo stimolare questa discussione proponendo alcuni spunti per una pianificazione integrata. Prendiamo come esempio metodologico il sottobacino di Torano.
2. Un vincolo centrale: il rischio alluvionale (masterplan Carrione)
Una pianificazione integrata del bacino montano non può prescindere dalla valutazione del rischio alluvionale che, anzi, è un vincolo fondamentale. Infatti, preso atto che la sistemazione del Carrione da Carrara al mare deve limitarsi ad adeguarlo alla sola piena trentennale (Q30) e che per l’attraversamento del centro città non è possibile raggiungere nemmeno questo limitato obiettivo con i soli interventi sull’alveo, il masterplan assegna un ruolo centrale al bacino montano del Carrione.
Al bacino montano, pertanto, oltre ad una galleria di bypass per trasferire 80 m3/s dal Carrione di Torano al Canale di Gragnana, per alleggerire le piene nel centro urbano (rendendo possibile proteggerlo dalla Q30), è affidato il compito di trattenere non solo le portate della propria piena duecentennale (Q200), ma anche quelle (comprese tra Q30 e la Q200) che il tratto da Carrara al mare non è in grado di veicolare.
A tal fine, il masterplan (Relazione Seminara 2016) prevede un insieme di interventi nel bacino montano:
- la già citata galleria di by-pass dal Carrione di Torano (a monte di Caina) al Can. di Gragnana (presso la villa Fabbricotti, Padula);
- la sistemazione dei ravaneti esistenti –rimuovendone i materiali fini presenti nello strato superficiale– e la stabilizzazione dei versanti;
- il ripristino del reticolo idrografico montano, adeguandone le sezioni, rimuovendo le strade di fondovalle dove necessario, demolendo i manufatti in alveo che ostacolano i deflussi e realizzando dispositivi (es.: briglie selettive, reti antimassi, ecc.) che intercettino l’eccesso di trasporto solido indotto da precipitazioni eccezionali;
- una serie di sbarramenti a luce tarata alti 15 m (3 sbarramenti nel bacino di Torano: Fig. 1), che, in occasione delle precipitazioni più intense, formino invasi temporanei, trattenendo le portate eccedenti.
In sintesi, l’esondazione della piena trentennale nel centro città può essere evitata realizzando la galleria di by-pass, mentre la protezione dalle piene duecentennali richiederebbe gli invasi montani.
La relazione Seminara (pag. 95), tuttavia, mette in guardia da eccessivi entusiasmi avvisandoci che l’effettiva realizzabilità degli sbarramenti è condizionata alla preventiva attuazione di una serie di raccomandazioni. Tra queste: delocalizzazione di alcuni insediamenti che interferiscono con gli alvei, ripristino della loro officiosità, spostamento delle strade di fondovalle che restringono gli alvei, sistemazione dei versanti e dei ravaneti (rimuovendo terre e marmettola dallo strato superficiale).
Chiarisce inoltre (p. 111) che la progettazione degli sbarramenti dovrà essere preceduta da un monitoraggio dei deflussi (per ottenere indicazioni sull’effettiva distribuzione delle portate di piena) e dalla necessaria rivisitazione dello studio idrologico (condotto con il modello Mobidic), anche alla luce del ripristino di una maggiore permeabilità degli ammassi detritici (rimuovendo i materiali fini dai ravaneti) che potrà contribuire, in misura da accertarsi attraverso uno studio ad hoc, all’attenuazione dei picchi di piena.
In poche parole, mentre sgombra il campo dall’illusione che gli sbarramenti (e la messa in sicurezza di Carrara) si possano realizzare in pochi anni, fornisce preziose indicazioni sugli interventi da realizzare da subito e sulla necessità di sollecitare la verifica dello studio Mobidic e dello studio ad hoc sull’efficacia protettiva dei ravaneti ripuliti dai materiali fini. Avanzeremo proposte in merito nel paragrafo 10.
3. Uso razionale della risorsa marmo
(piani attuativi di bacino estrattivo e regolamento agri marmiferi)
Come abbiamo evidenziato nell’agosto 2016 (Piani attuativi dei bacini estrattivi: una proposta di buonsenso, quindi rivoluzionaria), la redazione dei piani attuativi di bacino estrattivo, introdotti dalla L.R. 65/2014, non può prescindere dal riportare ordine e rispetto della legalità nell’escavazione, dal dare concreta attuazione agli obiettivi, direttive e prescrizioni del PIT-Piano paesaggistico e dal rendere coerente l’applicazione delle varie normative di settore, perseguendo sinergie ed evitando antagonismi.
Proponevamo allora, tra i criteri pianificatori da utilizzare, l’esclusione dalle aree estrattive delle cave che, producendo percentuali basse di blocchi ed eccessive di detriti, comportano un bilancio costi-benefici ambientale sconveniente (grande impatto e pochi benefici). Per rispondere a tale criterio riportiamo nella Tab. 1 e Fig. 2 le cave del bacino di Torano con la relativa percentuale di detriti e, nella Fig. 3, la loro ubicazione.
N. | Cava | anni di attività | Tot ton escavate | t / anno | % detriti |
21 | Lorano II | 13 | 189.511 | 14.578 | 55 |
22 | Lorano I | 13 | 2.316.224 | 178.171 | 81 |
25 | Canalbianco A | 13 | 446.709 | 34.362 | 91 |
26 | Fossa del Lupo | n.d. | n.d. | n.d. | n.d. |
36 | Rutola A | 13 | 426.584 | 32.814 | 96 |
37 | Fossa Grande | 13 | 220.576 | 18.967 | 72 |
40 | La Facciata | 13 | 1.304.976 | 100.383 | 78 |
42 | Amministrazione | 13 | 3.577.317 | 275.178 | 91 |
46 | Polvaccio | 13 | 1.669.817 | 128.447 | 91 |
52 | Tecchione | 13 | 1.566.436 | 120.495 | 89 |
55 | Torrione | 4 | 21.998 | 5.500 | 0,1* |
56 | Battaglino C | 10 | 62.414 | 6.241 | 60* |
61 | Valpulita | 13 | 121.697 | 9.361 | 63 |
64 | La Madonna | 13 | 762.087 | 58.622 | 91 |
66 | Poggio Silvestre A | 12 | 508.946 | 42.412 | 95 |
67 | Bettogli Zona Mossa | 13 | 623.367 | 47.951 | 79 |
68 | Bettogli B | 13 | 812.009 | 62.462 | 64 |
70 | Bettogli A | 13 | 1.233.387 | 94.876 | 75 |
138 | Ravalunga | n.d. | n.d. | n.d. | n.d. |
* dati ritenuti non significativi (viste le minime quantità annue estratte).
Nota importante: Le cave con una quantità eccessiva di detriti potrebbero essere molte di più di quanto appaia da questi dati. I dati, infatti, essendo tratti dalle registrazioni alla pesa comunale, non comprendono i detriti abbandonati al monte, nei ravaneti o nelle discariche di terre.
È sufficiente uno sguardo ai cerchietti rossi della figura 3 per rendersi conto che l’alto bacino è sostanzialmente costituito da grandi cave che, per estrarre pochi blocchi (meno del 10% del materiale estratto), sbriciolano la montagna riducendola in detriti (oltre il 90%): sono quindi cave di detriti.
Tenuto conto che il Piano Regionale Attività Estrattive (PRAER) prevede il rilascio dell’autorizzazione alle sole cave che producono blocchi per almeno il 25% del materiale estratto (pertanto con detriti inferiori al 75%), i dati della Tab. 1 e Fig. 2 pongono seri interrogativi sulla volontà di controllo da parte del comune e sulla legittimità delle autorizzazioni rilasciate a tali cave.
Prendiamo il caso estremo (cava Rutola): come può il comune aver consentito da 13 anni un’attività in cui l’estrazione di blocchi (3,6% del materiale estratto) rappresenta la maschera che copre l’attività reale di estrazione di detriti (96,4%), espressamente vietata dalla legge regionale e dallo stesso regolamento comunale? Come può il comune aver attestato (nelle relazioni annue inviate alla Regione, accompagnate dai dati di ciascuna cava) che la cava rispetta il PRAER? Come può la Regione non essersi mai accorta della clamorosa violazione del PAER?
A di là di questi inquietanti interrogativi, il semplice buonsenso ci dice che, se vi sono cave con una resa in blocchi superiore al 50% e altre con una resa inferiore al 10%, conviene sfruttare le prime e abbandonare definitivamente le seconde.
Questa semplice elaborazione dei dati fornisce dunque un’indicazione pianificatoria di grande importanza pratica: per motivi di legalità e di impatto ambientale, l’alto bacino di Torano va escluso dalle aree estrattive.
L’esempio, peraltro, dimostra l’importanza di rendere pubblici tutti i dati (nome delle cave, quantitativi di ogni tipologia di materiali estratti e loro valore di mercato, soci delle aziende estrattive, ecc.), per permettere ai cittadini di elaborarli e di trarne proposte di pianificazione e di gestione sulla base di una solida conoscenza della situazione.
L’indisponibilità di tali dati, nonostante le nostre reiterate richieste, ci ha impedito altre elaborazioni. La conoscenza dei quantitativi di ogni tipologia di materiale estratto da ciascuna cava e del loro valore di mercato, ad esempio, consentendo di cartografare e classificare le cave secondo il pregio (e il relativo valore) del marmo estraibile, ci avrebbe permesso di valutare l’opportunità di sfruttare alcuni giacimenti o, al contrario, di sottrarli all’attività estrattiva poiché il basso valore del marmo estraibile non produrrebbe un beneficio economico commisurato al danno ambientale (che, in linea di massima, è indipendente dal pregio del marmo estratto).
Il deficit di trasparenza (la mancata pubblicizzazione dei dati o, addirittura, il diniego alla loro consegna) praticato finora dalle amministrazioni comunali è dunque un serio ostacolo a una pianificazione partecipata. Chiediamo pertanto che questo comportamento, contrario all’interesse pubblico, venga abbandonato al più presto e che si proceda subito alla pubblicazione sul sito del comune di tutti i dati di dettaglio relativi al marmo.
4. Considerazioni paesaggistiche di base
Nella redazione dei piani attuativi di bacino estrattivo, naturalmente, assumono grande importanza le considerazioni paesaggistiche (peraltro rese obbligatorie dal PIT), fino ad oggi completamente trascurate.
L’ovvio e inevitabile impatto paesaggistico conseguente alla stessa esistenza di una cava è spesso ingigantito da scelte pianificatorie inopportune. Ne sono esempi:
- le autorizzazioni a intaccare i crinali (Fig. 4);
- la mancata attenzione a ridurre l’impatto visivo, ad esempio escludendo dall’autorizzazione anche solo piccole aree particolarmente visibili (Fig. 5);
- la scelta, ereditata dal passato ma tuttora acriticamente mantenuta, di accettare l’esistenza dei ravaneti con detriti alla rinfusa, utilizzati come supporto per le vie di arroccamento (Fig. 6);
- la tolleranza verso abusi e inadempienze che, anche nei rari casi in cui sono sanzionati, non lo sono in modo adeguatamente dissuasivo (mai, ad esempio, con sospensioni di congrua durata dell’autorizzazione) (Fig. 7).
A partire da questi casi concreti, utilizzati a solo scopo esemplificativo, il piano attuativo di bacino estrattivo dovrà prevedere specifiche misure finalizzate ad impedire il ripetersi di fatti analoghi. Per le alternative ai ravaneti sui versanti, a supporto delle vie d’arroccamento, si rinvia al paragrafo 10 poiché l’argomento interseca altre problematiche (rischio alluvionale, inquinamento delle acque superficiali e sotterranee) e richiede pertanto soluzioni multiobiettivo e valutazioni multicriterio.
Merita, invece, d’essere affrontata subito una problematica sottaciuta, nonostante gli enormi risvolti paesaggistici, turistici, ambientali ed economici: la proliferazione delle discariche nel bacino montano.
5. Da paesaggio di cave a paesaggio di discariche?
Come appena detto, tratteremo più avanti il problema dei ravaneti classici (quelli che ricoprono i versanti). Qui richiamiamo l’attenzione sul fatto che, all’insaputa dei carraresi e con la tolleranza o indifferenza dell’amministrazione comunale (o, addirittura, con la sua autorizzazione), il nostro paesaggio di cave si sta rapidamente trasformando in un paesaggio di autentiche discariche.
Le tipologie di discariche nel bacino di Torano sono rappresentabili con i seguenti esempi (per i relativi commenti si rinvia alle didascalie delle figure):
- l’abbandono definitivo di scarti di lavorazione (prevalentemente terre e tout venant) a formare rilevati con sommità piatta (Fig. 8);
- il colmamento di cave a fossa (Fig. 9);
- la sepoltura di cave a gradoni con detriti (Fig. 10);
- il massiccio impiego di terre per realizzare grandi rilevati funzionali alla cava (piazzali di lavorazione, supporto per rampe d’accesso alle quote superiori, ecc.) (Fig. 11).
Quali spunti si possono trarre dagli esempi di discariche qui esaminati (ai quali andrebbero aggiunti gli innumerevoli ravaneti “normali”)? Ne proponiamo alcuni.
- Non si tratta di depositi temporanei, ma di materiali evidentemente destinati all’abbandono definitivo. Giuridicamente, sono dunque “discariche” che, in quanto tali, richiedono un’apposita autorizzazione preventiva che può essere rilasciata solo con precise prescrizioni (impermeabilizzazione, raccolta e trattamento del percolato, ecc.). Poiché non vi è la minima traccia di tali accorgimenti, se ne deve concludere che si tratta di discariche illegali. Non è da escludere la possibilità che queste siano state autorizzate addirittura come “ripristino ambientale” di aree estrattive dismesse: se così fosse, al danno ambientale si unirebbe la beffa dell’aggiramento della legge. Anche in tale eventualità, comunque, va considerato che il D.Lgs. 117/08 (art. 5, comma 2, lettera a, punto 3) prevede «la possibilità di ricollocare i rifiuti di estrazione nei vuoti e volumetrie prodotti dall’attività estrattiva dopo l’estrazione del minerale», ma solo «se l’operazione non presenta rischi per l’ambiente, conformemente alle norme ambientali vigenti». Pertanto, poiché, per evitare il rischio di inquinamento delle acque, dovrebbero essere adottati gli stessi accorgimenti delle discariche, si ricadrebbe ugualmente in una violazione di legge (del D.Lgs. 152/2006). Com’è stato dunque possibile permettere sia la nascita sia l’attuale proliferazione di tali discariche?
- La sepoltura di cave mediante discariche comporta la perdita dell’effetto scenografico, talora grandioso (es. cave a pozzo, lunghe gradonate, grandi anfiteatri), e della testimonianza del lavoro umano, sostituiti da un paesaggio degradato. Una perdita paesaggistica, culturale e di attrattiva turistica il cui valore (anche economico) meriterebbe d’essere stimato.
- Non va poi dimenticato che i detriti (non solo scaglie, ma anche pietrisco e terre) sono soggetti al pagamento del canone e del contributo d’estrazione in base al quantitativo registrato alla pesa comunale. Consentirne l’abbandono al monte, dunque, comporta anche una rilevante perdita di entrate comunali (milioni di euro, visto che sono in gioco milioni di tonnellate di detriti). Com’è stato possibile consentirlo e com’è possibile tollerare che avvenga tuttora, sotto gli occhi di tutti? È una scelta politica dell’amministrazione comunale o il danno erariale è causato da funzionari infedeli? In entrambi i casi, occorre una svolta radicale: vietare le discariche e ordinare la rimozione di quelle esistenti.
Non vanno infine dimenticati altri impatti, per la cui trattazione si rimanda ad altri paragrafi: l’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee (par. 6), lo stravolgimento geomorfologico (par. 7 e 8), il rischio alluvionale (par. 9), la perdita occupazionale (par. 13) e i costi economici che bisognerà affrontare per il risanamento territoriale.
Numerosi, dunque, gli spunti, con ricadute pratiche della massima importanza, che i piani attuativi di bacino estrattivo e il regolamento degli agri marmiferi non possono permettersi di trascurare.
È ben vero che per evitare tale insieme di impatti sarebbero sufficienti il normale rispetto delle leggi e lo scrupoloso svolgimento delle procedure di V.I.A. Tuttavia, proprio il fatto che ciò non si sia verificato, impone la necessità di esplicitare, anche nella pianificazione e nel regolamento, precisi indirizzi ai quali dovranno attenersi gli uffici comunali e gli enti coinvolti nell’esame dei piani di coltivazione delle cave.
6. Tutela delle acque (fiumi e sorgenti)
Le attuali modalità di svolgimento dell’attività estrattiva comportano la compromissione della qualità delle acque superficiali e sotterranee. L’episodio del 1991 di inquinamento delle sorgenti da idrocarburi, che costrinse i carraresi a rifornirsi di acqua potabile dalle autobotti della Protezione Civile, innescò un’accentuata conflittualità sociale e la richiesta di chiusura delle cave (furono depositate oltre 5000 firme). Fu allora prescritta alle cave una serie di misure, tra cui: attivazione del servizio di raccolta degli oli esausti, serbatoi di oli dotati di vasca di raccolta delle eventuali perdite, contenimento e trattamento delle acque di taglio, serbatoi di carburanti con pistola erogatrice, dotazione di materiali oleoassorbenti per tamponare perdite accidentali, ecc.
A quel tempo tali misure incontrarono una notevole resistenza da parte degli imprenditori di cava, che, oltre a negare ogni responsabilità nell’inquinamento delle acque, ritenevano impraticabile lo sconvolgimento delle abitudini lavorative che le nuove misure avrebbero comportato. Tuttavia le cave si adeguarono abbastanza rapidamente e le nuove pratiche lavorative divennero presto consuetudine acquisita; da allora, tali eventi non si sono più verificati (salvo alcuni episodi occasionali e localizzati, non generalizzati). È la prova che lavorare bene è possibile e che l’adozione dei dispositivi di prevenzione dell’inquinamento da idrocarburi è stato un buon investimento, che ha rappresentato per le cave anche la miglior garanzia di serena prosecuzione dell’attività.
Il problema dell’inquinamento delle acque da marmettola e terre è invece rimasto irrisolto solo perché (allora come ora) non lo si è voluto affrontare, se non marginalmente. Si riassume qui l’essenza del problema.
I materiali fini presenti nelle cave e nei ravaneti sono dilavati dalle acque meteoriche e, in parte, trascinati in superficie intorbidando i corsi d’acqua (Fig. 12), mentre la parte restante si infiltra nelle fratture del marmo (Fig. 13) e, attraverso il reticolo carsico (Fig. 14), inquina l’acquifero profondo e le sorgenti. Il processo è ben spiegato e visualizzato nel breve video Marmettola: dalle cave alle sorgenti (24/7/16).
L’impatto sui corsi d’acqua non si limita all’intorbidamento, visibile a occhio nudo: la marmettola sedimentata nei tratti a più lento decorso, infatti, pur essendo priva di tossicità diretta, induce in essi un pesante impatto biologico sulle comunità di macroinvertebrati acquatici, fino alla loro totale scomparsa (si veda il volume Impatto della marmettola sui corsi d’acqua apuani, 1983).
È fondamentale tenere a mente che una cava può inquinare diverse sorgenti (anche situate in bacini idrografici diversi); che una sorgente può essere inquinata da più cave; che anche eventuali cave con marmo non fratturato possono inquinare le sorgenti (indirettamente, per infiltrazione delle acque in fratture carsiche incontrate lungo i versanti o nell’alveo dei corsi d’acqua) (si vedano: La Regione protegga le sorgenti dalle cave di marmo, 27/3/14 e Come le cave inquinano le sorgenti, 17/3/06).
Questa molteplicità delle fonti inquinanti rende praticamente impossibile attribuire a una data cava la responsabilità dell’inquinamento di una data sorgente (non potendosi escludere la responsabilità, esclusiva o congiunta, di altre cave, anche lontane e situate in bacini diversi). Se, dunque, a inquinamento avvenuto, non è possibile individuare e sanzionare il responsabile, diviene imperativo prescrivere alle cave accorgimenti preventivi, sanzionando severamente le inadempienze.
Le misure preventive si possono riassumere con lo slogan “cave pulite come uno specchio”, che proponiamo, inascoltati, da oltre vent’anni. In poche parole, occorre:
- tenere costantemente e rigorosamente puliti i piazzali di marmo (anche con macchine dotate di spazzole rotanti-aspiranti);
- vietare l’uso di materiali fini nella realizzazione di piazzali, rampe, vie d’arroccamento, riempimenti; qualora ciò non consentisse il transito dei mezzi in sicurezza, le polveri e le acque di dilavamento di ogni rampa dovrebbero essere raccolte e asportate (totalmente e immediatamente), per impedirne la dispersione in cava;
- stoccare gli scarti contenenti materiali fini esclusivamente in contenitori a tenuta stagna.
Purtroppo l’indifferenza all’inquinamento di fiumi e sorgenti è tale che lo stesso comune rilascia autorizzazioni che, consentendo le modalità di lavorazione inquinanti qui deprecate, sono equiparabili a vere e proprie licenze a inquinare. Va detto, per inciso, che tali autorizzazioni, pur essendo rilasciate seguendo una procedura formalmente corretta, violano le norme ambientali e sono pertanto illegittime.
È sufficiente un solo esempio per mostrare quanto sia paradossale (oltre che contro legge) il comportamento del comune. Nelle autorizzazioni, per prevenire l’inquinamento delle acque da marmettola, vengono prescritti il confinamento, la raccolta e il trattamento delle acque di taglio ma, con assoluta incoerenza, non ci si cura della marmettola e delle terre diffusamente presenti in tutta la cava. A che serve avere un angolino di cava in cui si raccoglie la marmettola se tutt’attorno questa viene tollerata in grandi quantità? (Fig. 15).
L’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee, ancor prima che attribuibile alla trasandatezza delle cave, è dunque innanzitutto responsabilità delle autorizzazioni illegittime rilasciate dal comune, la cui noncuranza fa sì che il problema, anziché ridursi, si accresca progressivamente. Alle terre accumulatesi nei decenni sui versanti montani, infatti, se ne aggiungono ogni anno quantità crescenti (dalle 143.000 t del 2006 alle quasi 600.000 t del 2016: Figg. 16 e 17).
Nota: la stima delle terre annue abbandonate al monte è stata ricavata partendo da due assunti: 1) che nel corso degli anni le terre prodotte siano state proporzionali ai blocchi estratti; 2) che tutte le terre prodotte nel 2005 siano state portate a valle. In base ai quantitativi di blocchi prodotti ogni anno, diviene facile stimare i quantitativi annui di terre “attesi” e, sottraendo da essi le terre portate a valle, ricavare i quantitativi di terre “abbandonate” al monte che, nell’intero periodo considerato, superano 4,6 milioni di ton. La stima potrebbe essere sottostimata poiché si basa sull’ipotesi che nel 2005 tutte le terre prodotte siano state portate a valle; se, ad esempio, nel 2005 fossero state abbandonate 200.000 t di terre, negli anni successivi aumenterebbero sia le terre attese sia quelle abbandonate, portando queste ultime a oltre 7 milioni di tonnellate.
7. Stravolgimenti geomorfologici recenti
Anche la lettura delle trasformazioni del territorio, sempre istruttiva, può fornire spunti interessanti per la pianificazione. La faremo ricorrendo a foto storiche per confrontare la situazione di allora con quella attuale.
Dal confronto tra le foto degli inizi del secolo scorso e quelle odierne salta all’occhio innanzitutto una grande differenza rispetto ad oggi: i ravaneti avevano un’estensione più vasta e uno spessore maggiore. Ne sono chiari esempi i ravaneti di Crestola e Collestretto (e parte del ravaneto Canal Bianco), ieri molto voluminosi e oggi assenti, ma la cui preesistenza è testimoniata anche dal substrato roccioso palesemente abraso dal rotolamento dei detriti (Figg. 18-20).
In altri casi, ad esempio Lorano e Battaglino, i ravaneti sono ancora presenti ma notevolmente ridotti di spessore rispetto a un secolo fa (Fig. 21).
Un’altra osservazione a colpo d’occhio è la composizione dei ravaneti, ieri costituiti in maniera assolutamente preponderante da scaglie, per lo più di notevole pezzatura, e oggi costituiti prevalentemente da terre: in nessuna delle foto storiche reperite sono visibili terre o marmettola (Figg. 19, 21 e 22).
L’assenza di terre nei vecchi ravaneti si spiega con il fatto che allora si ricorreva all’escavazione per “varata” con esplosivi deflagranti, con la quale si abbattevano vasti fronti di cava per ottenere, dall’enorme ammasso detritico, almeno qualche masso abbastanza grande per ricavarvi blocchi (Fig. 22E). Gran parte del marmo veniva dunque frantumata in un’enorme quantità di detriti grossolani. Scaglie minute, invece, risultavano dalla riquadratura in blocchi, effettuata manualmente con la subbia dagli scalpellini.
Naturalmente, le terre del cappellaccio erano presenti anche allora, ma rappresentavano una piccola percentuale del materiale presente nei ravaneti, sia per la sovrabbondanza di scaglie legata alla tecnica distruttiva delle varate sia perché, essendo prive di valore economico, le scaglie venivano abbandonate sul posto. Ne derivavano immensi ravaneti di scaglie che, seppellendo versanti e valli, rappresentavano un problema crescente per la stessa attività estrattiva.
Oggi, al contrario, l’abbandono degli esplosivi e il passaggio alle tecniche di taglio con utensili diamantati (filo e tagliatrici a catena) comportano la produzione di fanghi (marmettola, ieri assente) e una minor percentuale di scaglie. Inoltre, grazie all’avvento di impieghi industriali delle scaglie (sotto forma di granulati e di carbonato), queste vengono asportate dal monte, mentre le terre, rappresentando solo un costo, sono abbandonate in loco (abusivamente ma impunemente). Ecco come si è passati dai vecchi ravaneti ricchi di scaglie ai moderni ravaneti ricchi di terre.
Una trasformazione territoriale di rilievo si è verificata alla stazione della ferrovia marmifera di Ravaccione. Qui, per proteggere la stazione dal rischio idrogeologico in occasione di precipitazioni intense, alla fine dell’800 il tratto terminale del Canal Bianco è stato arginato e le sue portate (liquide e solide) sono state indirizzate sotto l’alto ponte ferroviario (Fig. 23).
Dopo l’abbandono della ferrovia marmifera (dismessa all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso), il tratto terminale del Canal Bianco e la luce del ponte sono stati occlusi da uno spesso rilevato in detriti per realizzare la via d’arroccamento asfaltata che conduce i camion alle cave dell’alto bacino di Ravaccione (Fig. 23D).
Trasformazioni ancor più imponenti sono avvenute anche sul lato di valle della stazione, il cui fondovalle, colmo di detriti grossolani, era ad una quota molto più alta dell’attuale. Per aprire la cava Buca di Ravaccione (profonda alcune decine di metri e accompagnata da gallerie), infatti, sono stati rimossi i detriti ed è stato costruito un imponente muro in calcestruzzo a sostegno della stazione, per evitare il rischio di crollo nella buca (Fig. 24B).
Negli anni recenti, infine, dismessa la cava, è iniziato il colmamento della sua grande cavità (oggi in fase molto avanzata), al duplice fine di utilizzarla come discarica di inerti (al solito, prevalentemente terre) e di realizzare un ampio piazzale per l’adiacente cava Collestretto (Fig. 24B).
In questo contesto di grandi trasformazioni verificatesi nell’ultimo secolo, ciò che non è cambiato è il controllo pubblico, assente ieri come oggi. Si è cioè lasciata al cieco arbitrio degli imprenditori di cava la libertà di gestire i bacini montani secondo le loro convenienze, determinando così imponenti trasformazioni territoriali, della copertura del suolo e del reticolo idrografico, senza preoccuparsi degli effetti indotti: assetto paesaggistico, morfologico e idrogeologico, inquinamento di fiumi e sorgenti, rischio alluvionale.
È da augurarsi che quanto avvenuto serva da monito agli estensori del piano attuativo di bacino estrattivo, il cui fine istituzionale è quello di governare le trasformazioni tenendo conto di tutte le possibili conseguenze, non certo quello di lasciarle alle mutevoli convenienze del momento degli imprenditori dell’escavazione.
8. Ancora stravolgimenti territoriali: sepoltura del reticolo idrografico
L’imponente sviluppo dei ravaneti nel secolo scorso ha ovviamente condotto alla sepoltura del reticolo idrografico minuto degli alti versanti, asciutto per gran parte dell’anno ma che, con le precipitazioni intense, veicola portate (liquide e solide) anche rilevanti. Rinviamo al paragrafo 9 le ripercussioni sul rischio alluvionale e affrontiamo qui le trasformazioni indotte sul fondovalle principale. La Fig. 25 permette di sviluppare alcune importanti considerazioni.
Se si confronta la quota reale del fondovalle (linea blu nel grafico) con quella di un fondovalle teorico (con pendenze che, salendo verso monte, aumentano regolarmente secondo un andamento esponenziale: linea rossa tratteggiata) si notano differenze rilevanti:
- lo scostamento di circa 45 m poco a monte del ponte di Sponda è attribuibile all’accumulo di detriti nel fondovalle (provenienti dai ravaneti di Crestola e La Madonna: Figg. 18A e 18C), che ne ha causato l’innalzamento della quota. La ripida pendenza tra monte e valle del ponte è attribuibile al cambiamento litologico e, quindi, di erodibilità del substrato roccioso (circa 150 m a valle del ponte, infatti, si passa dai marmi all’affioramento dei grezzoni e degli scisti sericitici);
- risalendo, la differenza di quota si attenua, fino ad azzerarsi (tra la Piastra e lo stabilimento Omya); è dunque presumibile che in quest’ultimo tratto la quota del fondovalle corrisponda a quella naturale. La correttezza di questa interpretazione è supportata dalla natura geologica del substrato: in questo tratto, infatti, costituito da calcari selciferi (anziché marmi), non sono mai state presenti cave i cui detriti potessero colmare il fondovalle (Fig. 26). Dal ponte di Sponda fino all’Omya la strada è stata costruita nell’alveo del Canale di Sponda, restringendo quest’ultimo in un alveo in cemento (Fig. 27A);
- tra l’Omya e la stazione di Ravaccione si registra uno spessore crescente (mediamente 25 m) di detriti provenienti dai ravaneti, in particolare da quelli di Lorano (Figg. 21A e 22A), Battaglino (Figg. 18A e 20A) e Collestretto (Figg. 19A e 24A). Si noti che in questo tratto il fondovalle è privo di alveo: al suo posto, infatti, sulla copertura detritica, è stata realizzata la strada asfaltata (Fig. 27B). Le acque meteoriche provenienti dall’alto bacino si infiltrano pertanto nei detriti e scorrono tra i loro interstizi (al di sotto della strada), esercitando una pressione che, con le precipitazioni intense, provoca rigonfiamenti nel manto asfaltato o, addirittura, il suo completo sfondamento (Figg. 27C-D-E);
- a monte di Ravaccione, infine, i versanti sono coperti da spessori di detriti veramente notevoli (40-100 m) che si assottigliano, fino ad annullarsi, verso la sommità dei ripidi versanti ‘alpini’.
È doveroso precisare che lo spessore di detriti accumulato nel fondovalle (Fig. 25) non è ricavato da misurazioni, ma da una stima basata sul confronto tra le quote attuali e quelle presunte sulla base di un modello teorico (andamento esponenziale della pendenza del fondovalle): si tratta quindi di dati da considerare solo nel loro ordine di grandezza. La coerenza con la natura del substrato geologico, con lo sviluppo dei ravaneti desunto dalle foto storiche e con la situazione attuale, depongono comunque per la verosimiglianza dell’interpretazione fornita.
9. Il rischio alluvionale: cause
9.1 Il ruolo ambivalente dei ravaneti
Come accennato al par. 2, la riduzione del rischio alluvionale (problema centrale col quale deve confrontarsi ogni pianificazione) è in larga parte affidata dal masterplan del Carrione a interventi nei bacini montani che comprendono sia classiche opere ingegneristiche (galleria di bypass, bacini di laminazione) sia risanamenti ambientali (ripristino del reticolo idrografico, sistemazione dei ravaneti), questi ultimi da attuarsi preventivamente.
Poiché il sottobacino di Torano, data la sua natura geologica, presenta un suolo ben poco sviluppato e, pertanto, in gran parte privo di copertura boschiva (Fig. 1), le acque meteoriche scorrono a valle molto velocemente sul substrato roccioso, anche a causa delle elevate pendenze dei versanti montani. Dal punto di vista del rischio alluvionale, le condizioni sono dunque tra le peggiori poiché, dati i brevi tempi di corrivazione e le precipitazioni particolarmente elevate, i grandi volumi d’acqua caduti in tutto il bacino si concentrano rapidamente alla sua foce, generando picchi di piena improvvisi ed elevati.
Analoghe considerazioni valgono per i bacini di Miseglia e di Colonnata. Pertanto Carrara è soggetta a un rischio alluvionale elevatissimo, cui contribuiscono la drammatica insufficienza dell’alveo (soffocato da strade e edifici) e la confluenza quasi simultanea delle piene dei corsi d’acqua montani.
Data l’elevata velocità di scorrimento, l’assorbimento idrico del sistema carsico fornisce, di per sé, un contributo molto modesto all’attenuazione delle piene. A governare la trasformazione afflussi/deflussi e la generazione delle onde di piena restano pertanto solo i ravaneti che, dati i notevoli spessori, la grande estensione e permeabilità, possono svolgere un ruolo rilevante. Anche le cavità, quali le cave a pozzo, potrebbero svolgere un certo ruolo che, però, è di fatto assolutamente marginale, visto che sono poche e piccole (l’unica di rilievo era la Buca di Ravaccione, ormai quasi completamente colmata e ridotta a discarica: Fig. 9).
Dal punto di vista del rischio alluvionale, i ravaneti hanno un comportamento ambivalente. Da un lato, infatti, assorbendo le acque piovane e restituendole gradualmente e dopo un certo ritardo, riducono il rischio alluvionale: non solo perché sottraggono volumi ai picchi di piena ma, soprattutto, perché, rallentando i deflussi, distribuiscono su un tempo più lungo il volume delle acque precipitate (Fig. 28). A questi effetti positivi contribuisce anche il fatto che il lento scorrimento idrico nel corpo dei ravaneti aumenta grandemente il tempo di contatto tra le acque e il substrato roccioso, favorendo così la loro penetrazione nelle macrofratture del sistema carsico. Per inciso, ciò favorisce sia il rimpinguamento della falda (contrastando le crisi idriche estive) sia il suo inquinamento (data l’abbondanza di terre e marmettola nel corpo dei ravaneti).
Dall’altro lato, i ravaneti apportano agli alvei sottostanti grandi quantità di detriti (che si distribuiscono poi sull’intera asta fluviale, fino alla foce), riducendone la capacità idraulica e favorendo pertanto le esondazioni: ciò avviene sia gradualmente (con le normali precipitazioni), sia in maniera impulsiva e massiccia quando le precipitazioni eccezionali innescano grandi frane nei ravaneti.
Il principale fattore predisponente all’innesco di colate detritiche nei ravaneti è l’alto contenuto in terre e marmettola che, imbibendosi con le piogge, si rigonfiano, aumentano di peso, riducono la permeabilità dell’ammasso detritico e tendono a fluidificare; una volta innescata, è la stessa colata detritica che, scendendo lungo il versante, esercita una spiccata forza erosiva, autoalimentandosi.
Nel caso di precipitazioni intense, ma successive a un periodo asciutto, l’imbibizione interessa soprattutto le terre presenti negli strati superficiali del ravaneto; la colata detritica è dunque di entità più limitata. Quando invece la precipitazione intensa segue un periodo piovoso (piogge anche di modesta entità, ma ripetute, tali da imbibire anche gli strati profondi del ravaneto), la colata detritica può interessare in profondità l’intero ammasso detritico, con effetti catastrofici.
Alcuni esempi di colate detritiche che coinvolgono ingenti quantità di materiali sono illustrati nelle Fig. 29 (relativa ai ravaneti incombenti sul Canale di Sponda), 30 (ravaneto di Piastra) e 31 (ravaneto Tecchione).
9.2 Strade in alveo, alvei ristretti e cementificati (o assenti)
Un’ulteriore accentuazione del rischio alluvionale deriva dalla scelta di realizzare la strada Sponda-Ravaccione (e, ancor prima, la ferrovia marmifera) occupando il ristretto fondovalle montano e sottraendo così spazio all’alveo del Canale di Sponda. Conseguenza quasi obbligata di questa scelta è stata la successiva cementificazione degli alvei poiché questi, divenuti insufficienti a veicolare le portate di piena, esondavano sulla strada stessa impedendone la transitabiltà (Figg. 27A e 29C).
Sulla base del principio-guida esposto nel paragrafo precedente (la necessità di rallentare il deflusso delle acque per ridurre i picchi di piena), è evidente che la cementificazione del Can. di Sponda, accelerando lo scorrimento delle acque, accentua i picchi di piena a Carrara.
Dall’Omya a Ravaccione, inoltre, la strada ha occupato interamente il fondovalle, che è rimasto pertanto del tutto privo di alveo (Fig. 27B). Come già visto, le acque scorrono al di sotto della strada (tra gli interstizi dei detriti) esercitando una pressione che danneggia il manto stradale (Figg. 27C-D-E). In occasione delle precipitazioni eccezionali, tuttavia, parte delle acque meteoriche scorre direttamente sulla strada asfaltata, acquistando così grande velocità e aggravando il rischio alluvionale.
Anche le vie d’arroccamento sterrate sono state costruite badando unicamente a garantirne la transitabilità: a tal fine sono state dotate di canaline laterali per il rapido allontanamento delle acque, onde evitare la creazione di solchi che deteriorerebbero la superficie stradale (particolarmente erodibile dato il suo rivestimento in terre e marmettola: Fig. 32A). Considerata la loro diffusione (Fig. 32C) e le elevate pendenze, rappresentano pertanto un altro contributo non trascurabile all’incremento del rischio idraulico (accelerando i deflussi).
Nel caso delle vie d’arroccamento asfaltate (Fig. 32B), ovviamente, l’incremento del rischio è particolarmente accentuato, vista la grande accelerazione subita dalle acque per la combinazione delle elevate pendenze con lo scorrimento sulle lisce superfici del manto asfaltato e/o delle canaline in cemento.
Per le proposte volte ad affrontare entrambi i problemi (alvei occupati da strade e vie d’arroccamento) si rinvia al par. 10.
10. La proposta: ridurre il rischio alluvionale con i ravaneti spugna
10.1 Ravaneti: riepilogo delle problematiche
Si premette subito che per tutte le proposte avanzate in questo documento si è posta particolare attenzione ad affrontare contestualmente l’insieme delle problematiche (rischio idraulico, qualità delle acque, paesaggio, aspetti economici e sociali), rifuggendo dal deleterio approccio mono-obiettivo che, limitandosi ad affrontare un determinato problema, rischia di generarne altri, magari di maggior entità.
Si è visto (par. 9.1) che i ravaneti, assorbendo grandi quantità di acqua e, soprattutto, rallentandone il deflusso, forniscono un importante contributo alla riduzione del rischio alluvionale; possono tuttavia divenire controproducenti per l’eccessivo apporto solido agli alvei, sia esso graduale (frequente rotolamento di piccole quantità di detriti) o improvviso e catastrofico (colate detritiche).
Si è anche visto che gli effetti controproducenti derivano dal contenuto in terre; i vecchi ravaneti, costituiti quasi esclusivamente da scaglie, sono infatti stabili, come si deduce dal loro annerimento superficiale (segno che, da molti anni, i detriti non hanno subito rotolamenti: Figg. 33A e 33B). Quelli recenti, invece, sono soggetti sia alla graduale erosione meteorica (Fig. 33D) sia a catastrofiche colate detritiche (Figg. 29-31).
Relativamente ai corsi d’acqua, i ravaneti recenti (e le vie d’arroccamento) svolgono un ruolo decisamente negativo a causa dei frequenti episodi di intorbidamento (ad ogni pioggia di rilievo) determinati dal dilavamento di terre e marmettola (Fig. 12).
Per l’approvvigionamento idropotabile, invece, il ruolo svolto dai ravaneti è ambivalente: da una parte, infatti, l’assorbimento delle acque meteoriche e il loro notevole rallentamento incrementano il rimpinguamento dell’acquifero (rendendolo meno vulnerabile alle crisi idriche da siccità); dall’altra parte, però, trascinando marmettola e terre nell’acquifero, compromettono la qualità delle acque sorgive. Il contributo dei ravaneti alle sorgenti è dunque molto positivo dal punto di vista quantitativo e molto negativo dal punto di vista qualitativo.
Per quanto riguarda l’impatto paesaggistico, infine, il ruolo dei ravaneti è senza dubbio pesantemente negativo.
10.2 Il cuore della proposta: i ravaneti-spugna
Dalle considerazioni qui riassunte scaturisce la nostra proposta, volta a conseguire contestualmente la riduzione del rischio alluvionale, il miglioramento della qualità delle acque superficiali e sotterranee e la riqualificazione paesaggistica, nonché l’attrattiva turistica, vantaggi economici e occupazionali (per questi ultimi punti si rimanda al par. 13).
L’idea è semplice, come l’uovo di Colombo. Si tratta di smantellare interamente i ravaneti fino al substrato roccioso e ricostruirli con le sole scaglie, lavate dai materiali fini. I ravaneti così ripuliti, infatti, funzionando come spugne che assorbono le acque meteoriche e rallentandone notevolmente i deflussi, ridurrebbero i picchi di piena e aumenterebbero il rimpinguamento dell’acquifero, mentre l’assenza di terre e marmettola eliminerebbe il principale fattore di instabilità dei ravaneti e di intorbidamento dei corsi d’acqua e delle sorgenti.
Il ruolo positivo dei ravaneti-spugna è richiamato anche nella relazione Seminara in cui si afferma (pag. 111) che «il monitoraggio dei deflussi consentirà peraltro la necessaria rivisitazione dello studio idrologico, anche alla luce delle azioni di rimozione dei materiali fini dai ravaneti e del ripristino di condizioni di maggiore permeabilità degli ammassi, che potranno contribuire, in qualche misura da accertarsi attraverso uno studio ad hoc, all’attenuazione dei picchi di piena».
In breve, i ravaneti ripuliti dalle terre attenueranno i picchi di piena, ma l’entità di questo effetto dovrà essere accertata attraverso uno studio ad hoc. Cogliamo quindi l’occasione di rinnovare la nostra insistente richiesta all’amministrazione comunale di accertare se lo studio è stato effettuato e, in caso contrario, di adoperarsi attivamente per la sua esecuzione, tenendo presente che dal suo esito dipenderanno il numero e il dimensionamento degli interventi ingegneristici (in particolare degli sbarramenti montani previsti dal masterplan).
È ovvio (ma non sarà superfluo ricordarlo) che, affinché questa ‘grande opera’ di smantellamento e ricostruzione dei ravaneti non sia vanificata, è indispensabile attuare le misure “cave pulite come uno specchio” indicate al par. 6. È dunque necessario che tali misure siano introdotte nei piani attuativi di bacino estrattivo, nel regolamento agri marmiferi e nelle autorizzazioni, dando fin d’ora esplicite direttive in tal senso agli uffici comunali.
Dal punto di vista operativo, per evitare l’apporto di nuove terre alle porzioni di ravaneto appena ripulite, occorrerà naturalmente procedere dall’alto verso il basso. Nel caso di ravaneti che supportino vie d’arroccamento, sarà probabilmente necessaria la costruzione di rampe temporanee alternative per garantire l’accesso alle cave.
10.3 Ravaneti: stabilizzazione e riqualificazione paesaggistica
Interventi complementari alla realizzazione dei ravaneti-spugna sono la loro stabilizzazione nei confronti delle precipitazioni eccezionali e la riqualificazione paesaggistica.
A questo duplice fine proponiamo la costruzione di bastioni di contenimento al piede dei ravaneti e, qualora strutturati a gradoni, anche al piede degli stessi. Nel caso di ravaneti che supportino le vie d’arroccamento, i bastioni potrebbero essere realizzati a sostegno di ciascuna rampa.
La ricostruzione dei ravaneti ripuliti dovrà essere l’occasione anche per proporre una nuova immagine dello ‘spirito del luogo’ (genius loci), che comunichi l’estrazione del marmo come opera titanica dell’uomo e, al tempo stesso, lo spirito artistico insito in ogni uso del marmo. Si propone pertanto di realizzare i bastioni in scaglie, con la tecnica dei muri a secco (Fig. 34) o in blocchi (Fig. 35). L’intento è il superamento dell’immagine di un genius loci rozzo e devastatore trasmessa dal degrado che caratterizza i ravaneti attuali (che non migliora certo l’attrattiva turistica).
Naturalmente, i bastioni di sostegno, contenimento e rivestimento, devono essere opere complementari a un vero intervento di risanamento ambientale (rimozione integrale dei materiali fini): sono dunque da respingere gli interventi di pura cosmesi ambientale, come quelli che mascherano discariche di terre (Figg. 35a e 35B).
La riqualificazione paesaggistica dei ravaneti ripuliti dalle terre può giovarsi anche di interventi di rivegetazione, avendo cura di impiegare ecotipi locali di specie autoctone (per lo più erbaceo-arbustive) e di armonizzarli con il contesto ambientale circostante. Tenuto conto dell’ovvia necessità di impianto su terre, occorrerà inoltre adottare accorgimenti per evitare sia la riduzione di permeabilità dei ravaneti, sia il dilavamento delle terre stesse.
A tal fine si suggerisce di:
- rivegetare solo una modesta percentuale della superficie dei ravaneti;
- ricorrere all’ampia gamma di tecniche d’ingegneria naturalistica, avendo l’accortezza di ‘contenere’ le terre entro robuste guaine, permeabili ma a maglia fine (geostuoie in materiali naturali e/o sintetici, guaine di tessuto-non-tessuto, lana di vetro, ecc.), per evitarne il dilavamento.
11. Ripristino del reticolo idrografico
Si è già visto (par. 8) come la sepoltura dei fondovalle (e degli alvei) causata dai ravaneti nel secolo scorso e la costruzione della ferrovia marmifera (poi sostituita da strade) abbiano condotto a restringere e cementificare l’asta del Canale di Sponda (Fig. 27A) o, addirittura, a occuparne totalmente l’alveo con la strada asfaltata (Fig. 27B). Si è vista altresì la necessità di ripristinare il reticolo idrografico soffocato da strade (par. 2) e di rallentare il deflusso delle acque per ridurre il rischio alluvionale (par. 9).
Da ciò scaturisce la nostra proposta, già esposta nel nostro primo contributo (Piani attuativi dei bacini estrattivi: una proposta di buonsenso, quindi rivoluzionaria, 2016): smantellare la strada Sponda-Ravaccione, ricostruendola a una quota più elevata, per ripristinare nel fondovalle un alveo rinaturalizzato.
È appena il caso di osservare che, oltre alla riduzione del rischio alluvionale, l’intervento conseguirebbe un indiscutibile miglioramento paesaggistico, rispondendo all’obiettivo 1.7 del PIT (riqualificare gli ecosistemi fluviali alterati e prevenirne ulteriori alterazioni).
Il rallentamento della corrente ottenibile è attribuibile a tre fattori: l’allargamento dell’alveo, l’aumento di scabrezza (da cemento a ciottoli e vegetazione) e la riduzione di pendenza conseguente al ripristino della sinuosità. Quest’ultimo aspetto, meno intuitivo degli altri, è spiegato nella Fig. 37.
Resta da chiedersi se il rallentamento ottenibile è rilevante o trascurabile. A tal fine basta applicare la formula di Manning (sia pure con qualche semplificazione) per calcolare la riduzione di velocità ottenibile con vari interventi (Fig. 38).
I calcoli mostrano che l’ampliamento dell’alveo, l’aumento della sua scabrezza e la sua sinuosità determinano riduzioni rilevanti della velocità. Passando infatti dal canale in cemento (stretto, rettilineo e liscio) all’alveo naturale (largo, sinuoso e dotato di scabrezza) si ottiene una riduzione della velocità di ben 6-7 volte. Vi sono quindi ottime ragioni idrauliche (oltreché ecologiche e paesaggistiche) per smantellare i canali in cemento e ripristinare gli alvei naturali montani.
Per il ripristino del reticolo idrografico montano minore sepolto dai ravaneti, considerato che si tratta di corsi d’acqua effimeri (solitamente asciutti, dato il piccolo bacino drenato e le elevate pendenze), non è proponibile la rinaturalizzazione. È però opportuno ripristinare alvei larghi e con elevata scabrezza, come ben fatto per il vicino Fosso di Curtana (Fig. 39).
12. Costi degli interventi proposti
12.1 Nuove modalità di lavorazione (cave pulite come uno specchio)
Le misure “cave pulite come uno specchio” indicate al par. 6, finalizzate alla tutela delle acque superficiali e sotterranee, non richiedono importanti investimenti in macchinari: si tratta essenzialmente di adottare una nuova organizzazione del lavoro e nuovi comportamenti volti a mantenere costantemente pulite tutte le superfici di cava.
I costi consistono semplicemente nel tempo necessario per tali operazioni e sono ovviamente a carico del datore di lavoro. Ciò comporta vantaggi per i cavatori (maggior occupazione) e per i cittadini (tutela dei fiumi e delle sorgenti) e uno svantaggio per gli imprenditori poco coscienziosi, finora abituati a scaricare i costi sull’ambiente e sulla comunità.
12.2 Costi della risistemazione dei ravaneti
La rimozione radicale dei ravaneti e la loro ricostruzione con sole scaglie richiede la movimentazione di milioni di m3 e l’allontanamento delle terre: è dunque un intervento imponente, una vera ‘grande opera’ che richiederà tempi lunghi e costi rilevanti, di cui dovrà farsi carico chi ha generato il problema, cioè il comparto estrattivo.
Operativamente, il comune (con l’auspicabile supporto della regione) potrebbe farsi carico della sola pianificazione strategica e della progettazione preliminare degli interventi, mentre la progettazione definitiva e l’esecuzione dei lavori potrebbero far parte dei piani di coltivazione delle cave (singoli o, più spesso, coordinati tra più cave adiacenti), sottoposti alla VIA e all’autorizzazione del comune.
La realizzazione concreta degli interventi (modalità e tempi d’esecuzione) si configurerebbe pertanto come una delle prescrizioni dell’autorizzazione all’escavazione, dunque a carico delle cave, singole o consorziate. Ciò richiede, ovviamente, l’introduzione di tali previsioni nei piani attuativi e nel regolamento degli agri marmiferi, nonché l’introduzione –nella procedura di VIA– dell’esame delle problematiche del rischio alluvionale.
12.3 Ripristino degli alvei e rimozione delle strade di fondovalle (costi)
Considerato che si tratta di interventi riparatori dei danni generati dall’attività estrattiva, anche in questo caso i costi dovrebbero essere ripartiti tra le cave appartenenti al bacino estrattivo di Torano. In altre situazioni, invece, il comune dovrebbe farsi carico dei costi, limitatamente ai tratti in cui l’occupazione dell’alveo da parte della viabilità non è stata dettata da esigenze di trasporto del marmo, ma da insediamenti civili.
12.4 Rimozione delle discariche (costi)
La creazione di discariche di terre, siano esse in rilevato o a colmamento di cave dismesse, è una pratica che si sta espandendo in maniera preoccupante in tutti i bacini estrattivi (peraltro, in modo, a nostro parere, illegittimo).
È quindi necessario che i piani attuativi di bacino estrattivo ne sanciscano nettamente il divieto, nonché l’obbligo della rimozione di quelle esistenti. In questo caso, ovviamente, l’obbligo –e i relativi costi– dovranno essere a carico del titolare e del gestore dell’area.
13. Considerazioni sociali: meno cave, più ambiente, più occupazione
Le proposte avanzate nel presente documento prendono spunto dall’analisi dei danni prodotti nel tempo dall’attività estrattiva ma, soprattutto, sono il frutto di una visione strategica solidamente fondata sul buonsenso: i giacimenti marmiferi sono un dono di natura che la comunità carrarese deve utilizzare con oculatezza, traendone benessere e bellezza ed evitando ripercussioni ambientali e sociali negative.
Queste ultime non sono il frutto inevitabile dell’escavazione in sé stessa, bensì delle modalità concrete in cui essa si attua, a loro volta figlie della finalità di arricchimento personale degli imprenditori (Fig. 40), resa realizzabile dalla mancanza di una lucida pianificazione pubblica mirata al bene comune (dettata dall’ignoranza, da subalternità culturale o, addirittura, da complicità).
La subalternità culturale alla logica del profitto d’impresa è largamente diffusa in tutti gli strati sociali e si manifesta nell’opinione che, siccome dal marmo si trae ricchezza e occupazione, bisogna accettarne anche le “inevitabili” conseguenze negative. Si giunge all’assurdo di cavatori che difendono le attuali modalità d’escavazione (negandone o minimizzandone i danni ambientali), ritenendo in tal modo di difendere il proprio posto di lavoro (talora anche a sprezzo della sicurezza).
Nulla di più falso: esaminando senza pregiudizi le proposte qui avanzate, infatti, risulta evidente che, oltre a indubbi vantaggi ambientali, economici e paesaggistici, esse comporterebbero un rilevante incremento occupazionale.
È elementare, infatti, comprendere che tutti gli interventi proposti (mantenere costantemente pulite tutte le superfici di cava per tutelare la qualità delle acque, smantellare i ravaneti e ricostruirli senza terre, ecc.) richiedono lavoro e si traducono perciò in un aumento dell’occupazione.
Perfino la chiusura delle cave che producono eccessive quantità di detriti può essere attuata incrementando l’occupazione, se si attua una strategia attiva, come la rapida introduzione della gara pubblica per l’assegnazione delle concessioni di cava, con un bando che richieda la lavorazione in filiera corta di almeno il 50% dei blocchi estratti (anziché esportarli per la lavorazione in altri paesi) e che premi gli imprenditori che si impegnino a lavorarne percentuali maggiori.
A titolo d’esempio, ci si limita a riportare l’insieme dei vantaggi ambientali e sociali conseguibili con la realizzazione dei ravaneti-spugna (Fig. 41). Analoghe mappe concettuali di flusso realizzate per gli altri interventi qui proposti dimostrerebbero la loro indubbia convenienza per la comunità, da tutti i punti di vista.
Anche altre obiezioni alle nostre proposte –pur sotto una veste tecnica– sono principalmente di ordine culturale o ideologico. Ad esempio, ci viene obiettato che, per consentire il transito in sicurezza dei mezzi meccanici, le rampe di cava devono essere ricoperte da una miscela di pietrisco e terre, il cui dilavamento ad opera delle acque meteoriche sarebbe dunque inevitabile. Da ciò discenderebbe l’impossibilità di pretendere la rigorosa pulizia delle superfici di cava, pretesa che comporterebbe la chiusura di tutte le cave.
La natura ideologica di questa obiezione (anche se forse inconsapevole) è evidente dalle priorità in essa implicite: si assume cioè acriticamente il punto di vista dell’imprenditore, sacrificando ad esso l’interesse della comunità. Così, sbrigativamente, si considera impossibile la pulizia delle cave, mentre si accetta come «inevitabile» l’inquinamento delle acque. Non si è sfiorati dal dubbio che, messi di fronte all’alternativa tra pulizia radicale della cava e chiusura dell’attività, gli imprenditori individuerebbero in un battibaleno le soluzioni tecniche idonee.
La tutela dei beni comuni, invece, richiede priorità opposte. Ad esempio, ammesso che non vi siano alternative tecniche all’uso di terre nel manto stradale delle rampe di cava, diverrà imperativo individuare soluzioni per intercettare ed eliminare le acque che le dilavano. Nel caso specifico potrebbero bastare, immediatamente al piede della rampa, una canalina e un pozzetto di raccolta munito di pompa a immersione che conduca le acque torbide all’impianto di trattamento.
Problemi ben maggiori, d’altronde (data la loro lunghezza), si porrebbero per le vie d’arroccamento. In questa sede non si entra nel merito delle specifiche soluzioni tecniche ad ogni singolo problema: si tiene, invece, a sottolineare l’importanza di un approccio mentale che privilegi la tutela delle risorse della comunità (acque, paesaggio, sicurezza idraulica, ecc.).
Se questa mentalità diverrà patrimonio degli uffici comunali, non sarà difficile individuare, anche con il contributo degli imprenditori, gli accorgimenti tecnici più idonei a risolvere i singoli problemi.
Carrara, 3 maggio 2018
Legambiente Carrara
Per saperne di più:
Contributi alla pianificazione (piani attuativi bacini estrattivi, legge regionale cave, regolamento agri marmiferi:
Cava Faggeta: la riattivazione sarebbe illegittima (29/3/2018)
Cava Faggeta: serve una moratoria sulla riattivazione delle cave dismesse (19/3/2018)
Riapertura della cava Puntello Bore? Perché no (contributo al contraddittorio) (5/2/2018)
Audizione alla commissione marmo: le proposte di Legambiente (20/11/2017)
Incontro Legambiente-sindaco su cave e rischio alluvionale (18/7/2017)
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Le nostre proposte per il Piano Regionale Cave (10/10/2016)
Piani attuativi dei bacini estrattivi: una proposta di buonsenso (quindi rivoluzionaria) (10/8/2016)
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