Marmo, bene comune
Fabio Ronconi
Comitato per la proprietà pubblica di tutte le cave
Chiediamo a tutti i cittadini di Carrara, cavatori compresi, di unirsi alla lotta per considerare il marmo e i nostri monti un bene comune. Chiediamo che parte dei profitti delle aziende del marmo siano reinvestiti sul territorio per creare occupazione e un’economia sostenibile, che guardi anche oltre i crinali di queste montagne.
Chiediamo che il marmo sia classificato come materiale da miniera, perché solo così è possibile uscire dall’anomalia giuridica che assoggetta i nostri agri marmiferi al diritto preunitario, come se ci trovassimo ancora nel secolo XVIII. Perché se la Corte Costituzionale darà ragione alle aziende che rivendicano la proprietà dei “beni estimati” (cave considerate private in virtù di un editto ducale del 1751) si aprirà la strada alla privatizzazione di ciò che resta delle nostre montagne, del nostro territorio.
Una strada senza ritorno. Oggi 4 operai in un giorno solo prendono dalla montagna una quantità di materiale pari a quel che i nostri nonni impiegavano anni. È sotto gli occhi di tutti come l’attuale ipersfruttamento delle cave sia causa di povertà, di alluvioni, di inquinamento delle fonti dei nostri acquedotti e di tutti i corsi d’acqua; causa di tragedie non certo dovute al fato.
Chi nelle cave lavora per portare a casa uno stipendio dignitoso rischiando la vita ogni giorno deve accontentarsi delle briciole di un business che crea profitti favolosi per pochissimi (si parla di un giro d’affari di un miliardo e mezzo all’anno). Dove vanno a finire tutti questi soldi? Non certo in questo comune, visto che i tributi delle concessioni non bastano nemmeno a pagare le rate del mutuo per la Strada dei Marmi (costata 160 milioni) e la messa in sicurezza del torrente.
Intanto una manciata di aziende, fra cui multinazionali come Omya e Bin Laden, si accaparrano concessioni secolari e “beni estimati” (ovvero cave di fatto pienamente in mano ai privati, che non pagano un centesimo alle casse del Comune) come in una specie di Risiko. A comandare è come sempre il mercato, che in mancanza di un governo lungimirante e dei necessari correttivi spinge l’escavazione a livelli insostenibili, obbligando i cavatori a ritmi di lavoro massacranti. E la tragedia è sempre dietro l’angolo.
Per questo occorre unirsi, cavatori e non, per pensare al futuro dei nostri figli. L’obiettivo non è chiudere tutte le cave ma scavare meno e meglio, producendo meno detriti, togliendo le terre di risulta che aumentano il rischio alluvionale, aumentare le lavorazioni locali, in particolare quelle ad alto valore aggiunto come la scultura e il design, e diversificare l’economia investendo anche in attività altre (opifici, agricoltura, turismo ecc.); creare una rete economica resiliente per uscire dalla monocoltura del marmo.
I cavatori non risorgono; le Apuane non ricrescono.
Per saperne di più:
ATTI dell’incontro Stati Generali delle Alpi Apuane (14/5/2016)